Rottamazione? Incentivi? SUV? Auto nòve nòve tutte standardizzate? A me 'ste cose non garbano punto;ma punto punto. Mi garbano invece le macchine vecchie, colorate, puzzolenti, piene di storia e di carattere; e le vo a fotografare in giro per la città, prima che scompaiano. Il blog del passatista automobilistico e di tutti coloro che inchiodano quando vedono una venerabile bagnarola fare una pernacchia alla macchinina da fighetti. La Bibbia dell'Eurozzèro a disposizione d'i' vórgo!
Il nostro INSCO, notissimo globetrotter, ci ha abituati a fornirci tregge provenienti dai posti più impensabili (sintetizzati con il toponimo Assurdistan). Però, come tutti non sanno, Egli è nativo di Gràssina, nel comune di Bagno a Ripoli (in serbo: Риполска Бања, in ungherese: Ripólybánya, in catalano: El Bany de Ripoll). Una località che ha nell'accento la sua autentica maledizione, dato che parecchi forestieri dicono Grassìna e, in tempi di ossessione per la linea, questo può comportare dei problemi. A Gràssina, invece, si preferisce la linea 32 dell'ATAF, vero simbolo identitario che la distingue dall'odiatissima Antella (servita dalla linea 31). Insomma, tutto questo per dire che INSCO, stavolta, è stato profeta in patria e ci spedisce queste foto notturne dal natìo borgo selvaggio nelle quali si può ammirare questo Typ 1 ravennate ai limiti del "Maggiolino", dato che, secondo l'ACI, risulta immatricolato il 1° gennaio 1967. Il 1967 è infatti l'anno in cui nasce "ufficialmente" la denominazione di "Maggiolino" in Italia.
In un colpo solo, quindi, INSCO fa il propheta in patriā, becca un "protomaggiolino" e, perché no, anche una targa di tutto rispetto del tipo "a scalare di due" (145 - 143). Io ho sempre sostenuto che il ragazzo ha della stoffa, oltre ad essere munito di un'attrezzatura fotografica quasi profèscional. Si dedicasse un giorno a fotografare tregge come si deve, invece che orripilanti pasti preconfezionati sugli aeroplani (vere e proprie tregge alimentari), sarebbe cosa buona e giusta. Ma tant'è, e INSCO ce lo pigliamo così com'è e, vista la sua predilezione per i rioplani, gli si dedicherà perfidamente un vecchio brano & strappalàgrime degli Albatros ispirato nientepopodimeno che ad un volo Alitalia: Volo AZ 504. Un caposaldo del trash italico interpretato tra gli altri da un giovane & ingravidatore Toto Cutugno.
Sono circa le 9 della sera del 16 settembre 1970 quando un'automobile arriva al n° 58 di viale delle Magnolie, a Palermo. E', dicono le cronache, una serata torrida, come accade non di rado nel capoluogo siciliano alla fine dell'estate; la vettura è una BMW Serie 02 (e in particolare una 1602, o 1600-2), sicuramente non comunissima né a Palermo né in tutta Italia, di colore blu notte e targata PA 21.... e qualcosa; è quindi abbastanza nuova, essendo stata immatricolata nel 1968. Se ne sa, disgraziatamente, anche il proprietario, vale a dire la persona che quella lontana sera era già arrivato a casa a bordo della sua autovettura tedesca; un giornalista chiamato Mauro De Mauro.
Comincia così uno dei tanti misteri d'Italia, forse il più fitto di tutti quanti. Quella sera, Mauro De Mauro esce dalla redazione del quotidiano "L'Ora" e si reca a casa dopo essersi fermato ad acquistare le eterne sigarette e due bottiglie di vino; a cena lo aspettano la moglie, la figlia maggiore Franca e il fidanzato di quest'ultima (i due si sarebbero sposati solo due giorni dopo). La figlia vede arrivare il padre che parcheggia la BMW, e va a chiamare l'ascensore; si accorge però che il padre si attarda, esce di nuovo dal portone e lo vede assieme a due o tre persone. Senza dire nulla, nemmeno un saluto, Mauro De Mauro risale sulla BMW e riparte. Franca De Mauro riesce solo a sentire qualcuno dire "amunì" ("andiamocene", in siciliano).
La BMW 1602 blu notte di Mauro De Mauro viene ritrovata la sera dopo in via Pietro D'Asaro, nel centro di Palermo, parcheggiata e chiusa: l'unica sua immagine ancora reperibile in rete è quella presente in questa pagina, scattata al momento del suo ritrovamento e della sua apertura. Il cofano fu aperto dagli artificieri per paura di un'esplosione; se ne vede uscire un cane pastore tedesco (quasi per ironia della sorte, visto che si trattava di una vettura tedesca). A bordo furono ritrovate, intatte, le bottiglie di vino che Mauro De Mauro aveva acquistato per la cena, e che dovevano senz'altro servire a festeggiare l'imminente matrimonio della figlia. Di Mauro De Mauro non si è saputo più niente; nulla di lui è mai stato ritrovato.
Ripercorrere questa storia non è e non può essere semplice. Mauro De Mauro aveva avuto una vita che definire controversa è poco; una vita del '900, la si potrebbe chiamare. Nato a Foggia il 6 settembre 1921 e fratello di uno dei più famosi linguisti italiani, Tullio De Mauro, era stato un fascista convinto e militante, aderente alla RSI e membro della X MAS di Junio Valerio Borghese, a cui era restato talmente legato anche dopo la guerra da aver chiamato Junia la seconda figlia. Era claudicante ad una gamba e aveva il naso devastato per un grave incidente di motocicletta avvenuto nel 1944 presso Siena; ma alcuni sostenevano che le menomazioni erano in realtà dovute ad un violento pestaggio subito da un gruppo di partigiani, o addirittura da alcuni commilitoni fascisti che lo sospettavano di tradimento. A tutto questo si deve aggiungere che Mauro De Mauro non occupava all'epoca posti di scarsa rilevanza: nel 1943-44 era stato vicequestore nella Roma occupata sotto il questore Pietro Caruso (della cui fucilazione si è occupato a suo tempo il TB), informatore del capitano delle SS Erich Priebke e del colonnello Herbert Kappler e membro della banda Koch. Tutti nomi da far tremare le budella, e si capisce forse meglio perché Mauro De Mauro possedesse una vettura tedesca.
Nell'estate del 1945 fu arrestato a Milano dagli Alleati, e rinchiuso prima a Ghedi e poi nel Campo di concentramento di Coltano, presso Pisa, dove si ritrovò in compagnia del poeta fascista americano Ezra Pound; vi riuscì a fuggire con un'astuzia nel settembre successivo. Da qui la sua vita cambia a 360°; si trasferisce con la moglie Elda (anche lei di provata fede fascista, braccata dai partigiani nel Pavese e indicata in un rapporto del CLN come tra i più pericolosi avversari del movimento partigiano) e le figlie, e comincia a lavorare per alcuni giornali, rivelandosi un ottimo cronista. Lavora prima al Tempo di Sicilia e poi al Mattino di Sicilia, per approdare poi a "L'Ora", quotidiano dichiaratamente di sinistra e legato al Partito Comunista Italiano.
Mauro De Mauro sembra avere il giornalismo nel sangue. Nel 1962 segue da vicino il misterioso caso della morte (in un "incidente aereo") del presidente dell'ENI, Enrico Mattei, e talmente da vicino da essere chiamato come principale consulente dal regista Francesco Rosi (anch'egli dichiaratamente di sinistra e tra i principali autori di pellicole di grande impegno civile) per il suo celebre film-inchiesta Il caso Mattei. Questo avvenne poco più di due mesi prima della scomparsa del giornalista, nel luglio del 1970; il film di Rosi uscì nel 1972 vincendo la Palma d'Oro a Cannes. Francesco Rosi ebbe a dichiarare che la consulenza di Mauro De Mauro fu "decisiva".
Come si può vedere, in viale delle Magnolie 58 a Palermo non abitava propriamente una famiglia qualsiasi. Il 23 e 24 gennaio 1962, ancor prima della morte di Mattei, Mauro De Mauro aveva pubblicato sull' "Ora" il verbale di polizia, risalente al 1937 e caduto (o fatto cadere) nel dimenticatoio, in cui il medico siciliano Melchiorre Allegra, tenente colonnello medico del Regio Esercito, affiliato alla mafia nel 1916 e "proto-pentito" dal 1933, elencava e descriveva tutta la struttura del vertice mafioso, gli aderenti, le regole, l'affiliazione e l'organigramma dell'Onorata Società. Davanti a Falcone e Borsellino, Tommaso Buscetta (i nomi di questo post, come si vede, continuano ad essere pesantissimi) ebbe a dichiarare quanto segue: "... De Mauro era un cadavere che camminava. Cosa Nostra era stata costretta a 'perdonare' il giornalista perché la sua morte
avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione utile avrebbe
pagato anche per quello scoop. La sentenza di morte era solo stata
temporaneamente sospesa."
Si ferma qui, almeno per quel che riguarda questo modestissimo blog che, a volte, s'addentra in storie molto più grandi di lui seguendo l'esile filo di una vecchia automobile. Sui motivi autentici della scomparsa totale di Mauro De Mauro ne sono state dette, fatte e intentate di tutte, senza arrivare a nulla. La verità sulla morte di Enrico Mattei, il "verbale Allegra", le frequentazioni con Borghese e con gli ambienti fascisti in prossimità del tentato colpo di stato dell'8 dicembre 1970; come ebbe a scrivere Leonardo Sciascia, "De Mauro ha detto la cosa giusta all'uomo sbagliato, e la cosa sbagliata all'uomo giusto".
Alla fine, però, questo blogghino automobilistico servirà pure a dire che, in fondo, la vecchia BMW 1602 targata Palermo 21 e qualcosa, se avesse potuto parlare, sarebbe stata l'unica ad aver visto tutto quel che era accaduto tra il viale delle Magnolie e via Pietro D'Asaro, la sera del 16 settembre 1970. A quanto pare fu fatta ispezionare con cura dall'allora capo della Squadra Mobile di Palermo, Boris Giuliano,e dall'investigatore capo dei Carabinieri, tale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Come siano finiti entrambi, dovrebbe essere ben noto. Ma non è stato nessuno a far sparire per sempre Mauro De Mauro; persino Salvatore Riina è stato assolto. La BMW non poté naturalmente essere interrogata, e sarà stata sicuramente depositata presso chissà quale magazzino giudiziario prima di finire schiacciata in una pressa.
Curiosamente, nel mio quartiere, l'Isolotto, a poche centinaia di metri da dove abito, esiste pure un "Viale delle Magnolie". Ci ho persino, un paio di volte, fotografato qualche treggia da mettere nel blogghino. Però mi è capitato a volte, passandoci, di ripensare a quell'altro Viale delle Magnolie, quello di Palermo. Vi arrivò una sera una BMW blu notte, e la notte blu inghiottì tutto.
Ed è così che a quel giornalista che aveva ficcato il naso devastato dove non si deve ficcarlo mai, a quel cronista repubblichino che lavorò prima per i nazisti e poi per il quotidiano comunista, alla sua vita strana e alla sua morte senza volto e senza ossa vorrei dedicare una canzone che parla di un'altra persona fatta ammazzare su dei binari ferroviari lo stesso giorno in cui fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro. Anche lui, volendo, era un giornalista; ma non lavorava nel grande giornale, ci aveva anzi una piccola radio libera che però dava parecchio fastidio. Si chiamava, lui, Peppino Impastato. E la radio si chiamava Radio Aut.
Via Pio Fedi, con la sua inesauribile autofficina specializzata in auto d'epoca, continua imperterrita a sfornare tregge su tregge; stavolta tocca alla più classica delle Fiat 1100 R nell'ancor più classico color grigio-bluastro (detto familiarmente blé suicidio o blé depressione).
A far da contraltare alla verniciatura da farlafinìta (che, va detto, all'epoca era di gran moda, e ne fanno fede diverse gemelle presenti nel TB), una radiosa giornata di tardissima primavera, o di inizio estate -con la speranza che l'estate del 2015 sia almeno un po' meno schifosa di quella del '14. Ci appare così una vettura che, appena nata, ha rischiato immediatamente di fare una brutta fine: risulta infatti immatricolata il 27 ottobre 1966, una settimana esatta prima dell'Alluvione. Insomma, come dire: se ha rischiato di essere travolta dalle acque ancora in fasce, si capisce bene perché 49 anni dopo sia ancora bella pimpante e parcheggiata in via Pio Fedi. Una sorta di Mosé salvata dalle acque.
Proprio salvata salvata, dalle famose acque? Beh, non del tutto. Dovete infatti sapere che la nostra Mosettina è già un po' di tempo che staziona fissa in via Pio Fedi presso l'autofficina, e che la prima volta che l'ho vista stavo tornando a casa a piedi sotto un diluvio che se non era universale, poco ci mancava. Ed eccola infatti qui, quella sera, sotto un'acquata che deve averle fatto ricordare cose non troppo piacevoli di quasi cinquant'anni prima:
Ma poiché dopo il diluvio torna sempre il sole (persino dopo quello universale, tanto per ribadire il tono squisitamente biblico di questo post), rieccola ad asciugarsi ben bene le venerabili lamiere:
In conclusione, per la Mosettina dell'Isolotto salvata dall'Arno (che non sarà il Nilo, però quando ci si mette ci sa fare pure lui...) bisognerà per forza di cose ricorrere al suo fratellone, quello che faceva passare il Mar Rosso e faceva scalate sul Sinai:
Parecchio interessante questa immagine proveniente, come si vedrà meglio in seguito, dall'estate del 1981. Un quadretto di vita quotidiana nella Firenze di quegli anni: il tipico bus arancione (che stava sostituendo quelli verdi, peraltro ancora normalmente in servizio come mi ricordo bene da ragazzo) della linea 1 sta percorrendo via Faentina oltrepassando una Volkswagen parcheggiata in primo piano.
Ce n'è di che parlare, accidenti. Cominciamo subito dall'autobus, che è lo storico Fiat 418BCF che ha fatto viaggiare non soltanto i fiorentini, ma gli abitanti di molte altre città italiane tra la seconda metà degli anni '70 e la prima degli anni '80. Quello che si vede nella foto, la vettura 2926 con tanto di pataccone obbligatorio che in quegli anni prescriveva la velocità massima degli autoveicoli, è munito addirittura di una targa "FI 80" quadrata (FI 803599) che ce lo rende pressoché prezioso.
Ogni volta che, qua dentro, s'incontra una "FI 80" quadrata occorre ricordare che si tratta delle targhe fiorentine più rare da vedere, dato che ne furono emesse soltanto 3999 tra la fine del 1975 e l'inizio del 1976: in pratica, le "FI 80" quadrate sono le ultime emesse a Firenze e provincia (FI 800000 - FI 803999). Con la targa FI 804000 cominciò la peraltro breve stagione delle targhe arancionere componibili.
Ma la storia dettagliata di questa immagine ce la racconta direttamente la sua fonte, vale a dire l'inBus club. La foto fu scattata infatti nel 1981 da un socio del Bus, Bruno Principe. Si viene quindi a sapere che la vettura 2926 raffigurata era stata immatricolata il 30 dicembre 1975. Rimase in servizio a Firenze addirittura fino al settembre del 1998, quando fu venduta (anzi: alienata) all'AMT, la municipalizzata di Catania che la reimmatricolò con targa ZA190HZ. La vettura 2926 terminò definitivamente la sua corsa il 31 gennaio 2006: trentuno anni di trasporti urbani.
Nella foto sopra, un Fiat 418BCF gemello (la vettura 2906, probabilmente appartenente allo stesso lotto).
La Volkswagen della foto ha pure la sua storia ben precisa: era infatti, come si specifica nella fonte, proprio la prima auto dell'autore della foto, il sig. Bruno Principe. Nella fonte si afferma che la vettura sarebbe un "VW 113 Maggiolino del 1963"; ma dalla targa del Typ 1 (non ancora "Maggiolino", a rigore filologico) si leggono le prime cifre FI 2607... che riportano l'immatricolazione al 1964.
In autostrada, le tregge sono oltremodo rare ed ancor più raro è riuscire a fotografarne una, anche se per caso la si becca. È, naturalmente, per le condizioni oggettive: se in città, a volte, il Treggista Militante® può lanciarsi nel classico inseguimento, una cosa del genere in autostrada è troppo pericolosa, e non mi stancherò mai di ripetere sia che la prudenza non è mai troppa e che niente, sia che neppure la treggia più clamorosa vale la pelle propria e degli altri.
Non che le tregge in autostrada non ci siano; però quasi sempre viaggiano accompagnate. Nel caso di quelle più antiche, le bisnonne insomma, le si trovano costantemente a bordo dei loro speciali cadreghini -vale a dire dei carrattrezzi o dei pianali noleggiati all'uopo. Le supertregge ultrasessantenni viaggiano per lo più per andare a qualche raduno di auto d'epoca, sono tirate a lucido e mal sopporterebbero di lanciarsi sulla A1 tra Piacenza e Bologna a un'ora di punta in mezzo ai TIR (con il rischio, inoltre, di provocare tamponamenti a catena perché vedere una vettura del genere farebbe lo stesso effetto di una spider con a bordo Belén Rodríguez ignuda).
Sulle autostrade, però, esistono gli Autogrill. Le stazioni di servizio. Quelle cose dove si fanno il pieno e la pisciatina (rimarrà sempre un mistero come mai in autostrada scappi a tutti da pisciare il decuplo di quando si è a casa), dove si beve il caffè e si mangiano panini di merda a prezzi esorbitanti e riscaldati a temperature da ustione di 3° grado, dove si spera sempre di beccare il biglietto della lotteria che cambia la vita e dove si è costretti, per uscire, a fare tutto il giro di un minimarket che espone specialità regionali che costano quanto un soggiorno per due persone in un albergo a 4 stelle in mezzo a ceste di libri che fanno ancor più schifo dei panini. Ed giustappunto a un Autogrill sulla A21 vicino a Cremona che mi sono ritrovato davanti a questa cosa qua, sistemata su un pianale targato Ferrara trainato da un SUV che faceva carburante.
Reduce evidentemente da un qualche autoraduno, si tratta di una vettura assolutamente inconfondibile: una Lancia Aprilia. L'unica automobile che fece fare una figura terrificante a Henry Ford, che al Salone di Parigi del 1937 fu trovato a gambe all'aria mentre ci curiosava sotto (dichiarò che era "l'unica vettura esposta per la quale valeva la pena fare una figuraccia"). Prodotta dal 1937 al 1949 e intitolata a una delle cittadine laziali appena fondate da Mussolini durante la bonifica dell'Agro Pontino, la Lancia Aprilia fu una macchina veramente anticonvenzionale per non dire addirittura rivoluzionaria nel suo genere: scocca autoportante su vettura chiusa, camere di scoppio emisferiche, 4 ruote indipendenti e retro "a coda" altamente aerodinamico. Una macchina che era davvero futuribile, venti o trent'anni in anticipo sulle altre.
Ed è così che finalmente un Autogrill, pisciatine a parte, si rivela veramente utile. L'Aprilia trasportata con mille precauzioni, munita di targa originale, secondo le tabelle di targheitaliane.com risulta essere stata immatricolata tra l'11 maggio e il 25 maggio 1938, cosa del tutto corrispondente alle indicazioni del proprietario che l'aveva detta essere "del '38". Non è sempre detto di incontrare un proprietario di auto d'epoca così preciso: di solito, anzi, chi possiede una vettura del genere tende a aumentarle l'età.
Un paio d'anni dopo, esattamente il 14 giugno 1940, nasceva a Modena il sig. Francesco Guccini. Nonostante certe sue vecchie foto "automobilistiche" a base di Fiat 515, il "Maestrone" non ha mai conseguito nemmeno la patente di guida e non credo proprio che sia tra i lettori più assidui di questo blog; ciononostante, e questo è un dato di fatto, mi risulta essere stato l'unico ad avere scritto e cantato una canzone dedicata a un Autogrill, quella dove alla fine "lo chiamò la strada bianca" (forse, chissà l'Autogrill in questione si trovava lungo una carrareccia tra Porretta e la Sambuca Pistojese). E poiché di Autogrill qui si parla a partir dal titolo, e Guccini ha più o meno la stessa età (e la stessa stazza) della Lancia Aprilia...
Da pochi giorni (il 1° giugno) il TB ha compiuto sei anni. E può essere anche che ce li abbia tutti quanti sul groppone: ultimamente, inutile fare come gli struzzi, conduce una vita piuttosto grama. Un po' per l'impervia montagna di guai che è la mia vita, un po' per mancanza del giusto e necessario Treggengeist e un po' per chissà per che cosa d'altro; fatto sta che, oramai, le famose pause durano mesi. Non sto più nemmeno a farlo presente; prendetelo così com'è, rimanete affezionati a questo blog se già lo eravate, oppure scopritelo se il caso vi ci ha fatti appena capitare dentro. Tornandoci però dopo l'ennesima pausa, che s'è presa quasi tutta la primavera, mi è venuto in mente di escogitare una specie di shock qua dentro. Chissà che non faccia bene, nel blog auto-passatistico per eccellenza, un po' di futuro; anzi, di fiùciar. Talmente fiùciar da finire nel logo, costantemente occupato finora da venerabili treggione fiorentine come la mitica Giulietta di S. Vincenzo a Torri che, da oggi, va in pensione sostituita per un po' dalla vettura che vedete in questo post. Qualcuno inorridirà, e a ragione, vedendo la targa alfanumerica moderna che rappresenta uno dei principali bersagli del vs. Treggista Preferito®; ma, naturalmente, a volte bisogna vedere a che cosa è stata apposta, e perché. Il Treggismo Militante® va bene, ma "treggismo" non fa e non deve fare la rima con talebanismo.
Qualcuno, magari, l'avrà pure riconosciuta; ma, per riconoscerla, occorre aver frequentato il TB per parecchio tempo. Almeno da sabato 9 ottobre 2010, quando questa signorina aveva ancora una targa tedesca (MYK 404A per la precisione, targa di Mayen-Coblenza), si faceva vedere in giro dalle parti di Via Aretina, provocava occhi sgranati, ooooooh! di ammirazioni e ricordi adolescenziali e il ragazzotto che la guidava, disponibilissimo a farsela fotografare (ovviamente) asseriva di averla acquistata in Germania a soli quindicimila euri. Vale a dire che, nel 2010, per 15.000 monete ùniche, ovvero il prezzo normale di un'idiotissima vetturetta dell'ancor più idiota ventunesimo secolo, ci si poteva portare a casa una DeLorean. Proprio Lei, insomma. Michael J. Fox e lo scienziato pazzo. Tutta la saga di Robert Zemeckis (cognome terribilmente lituano, o lettone) e le ottantotto miglia all'ora. I pochi esemplari che ne vennero prodotti tra diecimila peripezie, fallimenti, galere e quant'altro. La fama eterna legata a un film che è stato un caposaldo di noialtri ex-ragazzi. La rigorosa carrozzeria in acciaio lucido sverniciato. La parola mito è sicuramente abusata; ma per questa vettura no, non è sprecata. A Firenze ne esiste e ne circola una: Lei. Presumibilmente con lo stesso gentilissimo ragazzotto, e attualmente ritargata; insomma, la DeLorean DMC-12. Una delle 9200 prodotte tra il 1981 e il 1983 colta in un tramonto d'aprile in piazza Massimo d'Azeglio, stavolta. E dico questo: dovessi rivederla altre venti volte, venti volte la fotograferei e venti volte la metterei nel TB. Che il mondo lo sàppia.
E insomma, mi viene a mente che mentre guardavo e riguardavo il filmino, mai avrei pensato che un giorno del remoto futuro, ancor più remoto di quello dei saltapicchi della pellicola che trapassava il continuum, avrei visto una DeLorean in via Aretina, e poi, dopo un'altro po' di futuro, persino in piazza D'Azeglio con la targa "FI". Cose del futuro, appunto; o di un futuro nel passato, o di un passato nel futuro. Il tempo è cosa parecchio relativa. E come non tornare, allora, a quel lontano 1955, l'anno in cui è nato mio fratello che -per inciso- abita a cinquanta metri da dove ho fotografato la DeLorean, in cui Michael J. Fox, nelle vesti di Marty McFly, stupiva leggermente i suoi "coetanei" con una interpretazione di Johnny B. Goode per la quale i ragazzi di quell'anno "non erano ancora pronti"....?
Di fronte alla Dolly, non vale nessuna distinzione di targhe nere, targhe bianche, targhe blé o targhe a pallini: si fotografa, e basta. Sugli abbinamenti cromatici delle Dédeuches di ogni epoca ci si potrebbe scrivere un libro, ma confesso che l'accostamento tra il grigio e il rosso mi è sempre piaciuto parecchio (senza per questo nutrire nessun particolare attaccamento alla squadra della Cremonese). Siamo qui, oltretutto, in una delle più belle e, forse, anche più antiche viuzze dell'Oltrarno: via Ardiglione. Ma perché proprio Dolly? Ce lo dice la vettura stessa:
Ignoro francamente se si tratti proprio di uno specifico sottomodello, oppure se il proprietario o la proprietaria abbia voluto paragonare la sua Duhavalli (difussa anche la variante Du' Lalli) alla famosa e tipica pupa del saloon dei film western ("Dolly la Rossa") -ritenendo altamente improbabile che abbia pensato all'altrettanto celebre pecora clonata. Fatto sta, va detto, che il nome "Dolly" le sta particolarmente bene. Come tutti sanno, io sono assolutamente favorevole a dare un nome alle macchine: in famiglia mia c'è stata, ad esempio, la Poldina (la Simca 1000 di mio zio Dino) e l'indimenticabile Agedabia della zia Egle, ma tutte le mie macchine hanno avuto un nome, a partire dall'Agapina per finire alla mitica Plog. Anzi, se per caso vi pigliasse la voglia di dare un nome alla vostra macchina, ma non sapeste proprio dove andare a sbattere la testa, sono a vostra disposizione completa; grullo come sono, potete star certi che vi troverò il nome più adatto.
Quanto alla nostra Dolly in sé, di cui qua sopra si ammira il retro sgalettante, beh, targabianca targabià è andata a finire che ha già la sua bella trentina d'anni, segno di una evidente reimmatricolazione: secondo il Bollonet ACI è stata infatti immatricolata il 31 ottobre 1985, e quindi la targa che ha ora non corrisponde affatto alla cronologia (è del 1989).
Forse qualcuno si sarà chiesto come mai, quando si tratta di inserire antiche foto (questa è stata fatta pervenire da un mostro sacro del TB: Mark B.), si va spesso a cascare in immagini di incidenti stradali; talmente spesso, oramai, che ho deciso di istituire una speciale categoria. La cosa è però abbastanza logica, se ci si pensa bene: nei primi (e anche nei secondi) tempi dell'autolocomozione a motore, un incidente -anche il più lieve e banale- era una notiziona. Circolavano, nelle città, talmente poche automobili, che quando due andavano a sbattere l'una contro l'altra era un avvenimento che richiamava fotografi e reporter. Eppure, ebbene sì, le macchine riuscivano anche allora a andare a picchiarsi contro (qui, addirittura, due camion). Allora doveva fare lo stesso effetto di due cammelli che andavano a sbattersi contro in mezzo al deserto; però, come si vede dalla foto, le modalità erano le stesse di ora. Passo io....? No, passo io!! Icchett'hadètto...?!?! Ora 'e ti fo vedere chi passa....! E vadavùma!!! Ecco, te l'avevo detto! Cosittumpàri a 'un fammi passare...!!!
Siamo, evidentemente, in una stretta strada del centro di Firenze, con tanto di curva parecchio rognosa. Tra i due camion, quello rivolto di muso sembra avere avuto decisamente la peggio, sfasciandosi mezzo contro il cassone dell'altro. Del quale, però, non si legge né s'intuisce minimamente la targa. Del camion più danneggiato, invece, si vede (a fatica) la targa anteriore: FI 1158 (o meglio, secondo lo stile dell'epoca: 1158 FI). Viene da dire che, senza gli incidenti, le famose Quattro Cifre sarebbero ancor meno di quelle superstiti in immagine (di superstiti reali, ancora in circolazione, non se ne ha notizia). Poiché la targa FI 1161 fu emessa il 12 luglio 1927, e questa la precede di sole tre unità, siamo allo stesso giorno, o al massimo al giorno prima; la foto potrebbe essere dei primi anni '30.
Per la canzone, devo dirlo, sono parecchio in difficoltà. Nei tempi eroici ce n'erano eccome, di canzoni dedicate all'automobile; ma trovarne una dedicata a due camion pieni di copertoni e altre cianfrusaglie, mi sarebbe davvero arduo. Per questa volta, insomma, sono costretto a soprassiedere, rimandando tutto al prossimo post. Perdonatemi, ma consolatevi immaginando l'antica scazzottatura fra camionisti che, sicuramente, ci dev'essere stata.
Varzi è in provincia di Pavia, e quindi, a rigore, non si dovrebbe parlare di Tregge piacentine. Però si andava a Varzi da Piacenza, e a Piacenza si è tornati; quindi questa squisita treggia pavese viene attribuita a Piacenza un po' arbitrariamente, certo, ma pur sempre con qualche fondamento.
Un Ford Transit delle prime generazioni fa, come dire, sempre notizia. In mancanza di meglio, si può dire che dev'essere di poco posteriore al gennaio 1975; in quarant'anni ne deve aver transittata di gente e di roba, con quel suo bell'arancione sgargiante (e la striscia laterale rossa).
Ancora aveva una linea facilmente riconoscibile come British; è diventato, poi, un furgone pienamente "internazionale". A rigore si tratta di una Seconda Serie (prodotta dal 1965 al 1978); ma pochi sanno che il Transit è in produzione fin dal 1953, cosa che lo rende probabilmente uno degli automezzi attualmente in produzione da più anni. Sessantadue, per la precisione; siamo attualmente alla settima serie.
Aprendo una parentesi, sarà ben difficile vederne in giro qualcuno della Prima Serie, quella del 1953 e successivi. È veramente roba da collezionisti e da autoraduni. Curiosamente, questo simbolo della Ford inglese nacque in Germania; denominato in origine FK 1000 (ove "FK" stava per "Ford Köln", ovvero Ford Colonia), assunse il nome di "Transit" (o meglio, di Taunus Transit) soltanto nel 1961. Qui sotto ne vediamo un modello del 1964:
E che gli si abbina, come canzone, a un furgone prodotto in oltre tre milioni di esemplari, da moltiplicare per chissà quante centinaia di migliaia di chilometri ciascuno? Si potrebbe coprire la distanza da qui a Saturno, mi sa. Ci vuole qualcosa che parla di strada, e per la bisogna ho scelto questo classico pezzo dei Canned Heat che mi sembra ci stia parecchio bene:
Il TB ha una certa qual tradizione nipponica; ad esempio, e solo per dirne una, tuttora il post più visitato di tutto il blog risulta essere quello del 29 agosto 2011, relativo a un'autovettura giapponese e, soprattutto, con il titolo interamente nei micidiali caratteri giapponesi (che devono avere attratto parecchio gli aficionados del Treggia's Blog). Questo è il motivo per cui questo post si apre con una visione un po' insolita: quella di un serbatojo con impressi sopra dei segnacci incomprensibili, il primo dei quali sembra un qualche osso della colonna vertebrale, il secondo una "Y" e il terzo sembra indicare 7 secondi. E' il modo in cui scrivono i giapponesi, mescolando caratteri di origine cinese (kanji) e due sillabari, detti katakana e hiragana, nonché nonseparandominimamenteleparolecosìcomestoscrivendoora. A loro sta bene così, e chissà che c'è scritto sul serbatojo della motocicletta. Motocicletta?
Ecco qua di che cosa si tratta veramente. Uno stupefacente sidecar di vecchio stile nipponico, militaresco, inossidabile e composto di una moto Honda che qui vediamo sul romanticissimo sfondo di un Doblò furgonato della Telecom, sul piazzale della piscina Costoli al campo di marte (recentemente ribattezzato "Piazza Enrico Berlinguer", dal nome di un nobile sardo di origine catalana, di antica e ricca famiglia di proprietari terrieri).
Naturalmente, ora tutti voi vi direte: "Ecco svelato il mistero dei segnacci! C'è scritto Honda!". L'ho pensato anche io; col cavolo. "Honda", in giapponese, si scrive così:本田. Nulla a che vedere con i caratteri del serbatoio. Chissà che accidenti ci sarà scritto, magari chi la ruba faccia harakiri oppure fior di loto del benzene aromatico celeste del Sol Levante.
Anche se la targa (FI 214391) non si legge bene, colpa le condizioni di luce, siamo qui ad un'epoca in cui le moto giapponesi (e figurarsi i sidecar) erano ancora parecchio esotiche nel Paesello del Sol Calante: il motociclo risulta infatti immatricolato il 15 giugno 1974. Probabilmente, allora non si capiva ancora bene come mai uno dovesse andare a pigliarsi un "coso" giapponese quando esistevano le Guzzi, le Laverda, la Moto Morini, la Gilera...
A proposito. Ora vi aspettereste sicuramente qualcosa di giapponese, la canzoncina dei cartoni animati, la poesia sulla bomba atomica...e invece mi voglio rifare proprio alla chiusa di questo post con una canzonetta dove, per altro, c'è anche qualche moto giapponese. Non consiglierei però l'ascolto di questo classico pezzo della canzone impegnata italiana (oserei dire impegnatissima), ai giovanissimi treggisti in erba. Dé, era tanto che volevo fare il parental advisory!
Per quanto ce ne siano ancora tantissime in circolazione in una città di media grandezza come Firenze, le tregge non sono infinite e oltre la metà sono Cinquini. Per ogni Treggista Militante® che si rispetti, è quindi giocoforza beccarle e ribeccarle, in punti differenti della città (e spesso lontanissimi l'uno dall'altro) e, in alcuni casi, letteralmente per anni. Se per caso foste in compagnia di un Treggista e lo vedeste, ad un certo punto, fare gesti come battersi la mano sulla fronte e esclamare semplicissime frasi come : Oh poffarbacco! Sono al cospetto di un reiterato ritrovamento di un autoveicolo già a me ampiamente cògnito!, sappiate che detto Treggista ha, appunto, ribeccato una vettura che ha già visto parecchie volte. E' un po' come una figlia sua; ne conosce ogni centimetro quadrato, ogni particolare, ogni più minuta alterazione. Prendiamo ad esempio questa 500 maremmana, che il vostro Treggista Preferito® ha osservato letteralmente ovunque in città; è stata immatricolata un non vicinissimo 28 ottobre 1970 e nelle prime due fotografie la vediamo nel mese di luglio dello scorso anno.
Che cosa si nota, quasi di prim'acchito? Una caratteristica di parecchie 500, vale a dire la targa posteriore un po' malmessa. Le targhe nere erano assai poco adatte alla "bombatura" del cofano motore della prodigiosa vetturetta; ci venivano sforzate (e spesso ingabbiate una cornicetta metallica), si torcevano, formavano una specie di "camera" dove si accumulavano acqua e troiai vari e andava a finire che si spaccavano. Il Cinquino con la targa posteriore imbozzolita è un'immagine consueta e, direi, classica per chiunque si sia ritrovato a osservare le 500 con un po' di attenzione. Dài picchia e mena, la targa si staccava; e andare in giro senza targa (a meno di non essere a Beirut durante la guerra civile o nel Nicaragua in lotta per cacciare il dittatore Somoza) potrebbe comportare qualche lieve problema al quale occorre ovviare.
La foto sopra ritrae il nostro Mezzosacco grossetano qualche mese dopo e, naturalmente, agli antipodi cittadini. Come si può facilmente osservare, il problema della targa è stato risolto avvalendosi dei più moderni e sophysticati mezzi messi a disposizione dalla tennologìa: quattro be' pezzi di nastro isolante nero, che costa poco, appiccica bene e, durcissinfùndo, non ci sta poi male nemmeno dal punto di vista æsthetico. Come dire: un problema risolto con una scotchatura.
A tale riguardo, forse a qualcuno potrebbe interessare come mai il nastro adesivo viene chiamato scotch ("scozzese"). Non ha nulla a che vedere col whisky, né col fatto che sia stato inventato in Scozia o da uno scozzese; pare che il suo inventore alla 3M, mi sembra negli anni '30 del secolo scorso, ebbe a lamentarsi parecchio perché nelle prime versioni ci avevano messo poco collante, e il nastro non appiccicava proprio una sega. Ebbe quindi a esclamare assai risentito, avvalendosi di un noto luogo comune relativo all'avarizia di una popolazione celtica: Ma che cosa debbo constatare? Siete forse scozzesi? E metteteci più colla, per la barba di s. Girolamo, altrimenti ce lo tirano dietro! Così fu; e la cosa ebbe talmente successo, che "scozzese" (scotch) si chiamò il nastro adesivo e, addirittura, il marchio della 3M divenne un motivo che riprendeva il tartan, il caratteristico tessuto dei gonnellini scozzesi. Pensate un po'.
Giunti alla musichetta, avevo pensato giustappunto di ispirarmi allo scotch. Si fosse trattato del whisky, non avrei avuto che l'imbarazzo della scelta; ma una canzone ispirata da un nastro adesivo, beh, è un po' più difficile trovarla. Ne conosco una, però dov'è almeno nominato espressamente, il nastro de scotch, e ve la vado a far sentire anche perché lo merita per davvero.
America? Gli americani non la guarderanno mai questa foto, scattata probabilmente agli inizi degli anni '60 all'incrocio tra via di Peretola e via delle Compagnie. Peretola, antichissimo sobborgo di Firenze, già nominato nel Decamerone e, almeno secondo la banda della trattoria "Da Burde", che ne ha fatto un autentico credo, luogo dove si svolge la vicenda del burattino Pinocchio. E anche il luogo dov'è nata l'America. La foto ritrae infatti quella che, si dice, sia la più antica casa e il focolare originario della famiglia Vespucci. No, forse gli americani non se lo immaginano che tutto il loro armamentario, il God bless America, l'America first, Capitan America e tutto il resto, ha avuto origine a Peretola grazie a un ragazzaccio giramondo di nome Amerigo (antico nome di origine germanica), per tramite di due giovani e geniali cartografi alsaziani, Martin Waldseemüller e Matthias Ringmann che, nel 1507, diedero quel nome al nuovo continente nella loro carta Universalis Cosmographia. Individuarono in Amerigo Vespucci, da Peretola, il vero e cosciente scopritore dell'America come continente a se stante (e non certamente un genovese che era alla ricerca delle "Indie" e che andò a sbattere casualmente nell'isola di Hispaniola).
Gli americani non hanno mai riflettuto a fondo sul kiulo che ci hanno avuto. "America" suona bene, è un nome nato mediatico. Sì, certo, il genovese ci ha avuto il suo District of Columbia e lo stato della Colombia, ma il continente è fiorentino. Anzi, peretolano. Immaginatevi un po' se il grande navigatore si fosse chiamato, che so io, Pinzauti; ora ci avremmo la Pinzaùzia, God bless Pinzautia e gli United States of Pinzautia (USP). Invece no; ci abbiamo l'America.
La Storia, insomma, nasce sovente dove meno ci si aspetta. Via delle Compagnie è una stradina cortissima proprio all'inizio di via di Peretola, con le sue corti secolari e gli aeroplani che decollano e atterrano vicino ai tetti delle case. L'aeroporto, naturalmente, si chiama Amerigo Vespucci; e una via de' Vespucci si perde da Peretola verso via del Barco. Chissà chi ha scattato quella fotografia, che peraltro ci interessa anche in senso strettamente treggistico; la casa sarà sì due o trecentesca (ne fa fede la loggetta tipica dell'epoca), ma l'improvvisato fotografo non ce l'ha fatta di certo a rimuovere due simboli della modernità, una motocicletta che chissà che diavolo è, e una macchina.
All'ingrandimento, appare il retro di una Fiat 1400, una vettura di fascia alta che, a quei tempi, poco ci si sarebbe aspettata in un sobborgo popolare come Peretola, fatto di contadini, renaioli e pescatori. E si pensi se, all'epoca, fossero state di moda le attuali bischerate sulla privacy; non si sarebbe mai saputo che la targa, FI 81996, riporta a qualcosa tra il luglio e il novembre del 1955. La foto, ripeto, dev'essere di qualche anno dopo. Nulla è dato invece sapere sulla motocicletta, ma chissà che qualcuno degli infallibili occhi di lince che popolano il TB non la riconosca.
Non resta che augurarsi che la Fiat 1400, parcheggiata sotto la casa di Amerigo Vespucci, abbia navigato a lungo (evitando magari di farlo verso il novembre del 1966). Navigato parecchio, di sicuro, devono averlo fatto decine di migliaia di emigranti verso quell'America che prendeva nome da un peretolano; e anche, di sicuro, chissà quanti peretolani e fiorentini, spinti dalla fame e dalla mancanza di lavoro. Non andavano a esplorare, nella Mèrica. E, magari, se il Vespucci lo avesse saputo, sarebbe andato a farsi un giro in montagna.
Agli albori del TB, il fatidico primo di giugno del 2009, cercai di andare sul sicuro. Le prime tregge di questo blog non furono né improvvisate, né scovate per caso: in realtà, le vedevo da anni e sempre nello stesso posto. E m'immagino facilmente a quanti di voi, che magari seguite il TB da tempo (per passione, per curiosità o chissà per che cos'altro), sarà successo lo stesso: la vecchia autovettura catalizza l'attenzione per forza di cose. "Toh! Ce ne sono ancora in giro!"; un pensiero assolutamente tipico. A qualcuno di voi, senza naturalmente scomodare i Treggisti professionisti come Mark B., Simone B. e altri, sarà capitato di fare persino qualche fotografia, almeno nei casi più eclatanti; la speranza, malcelata, è che prima o poi a qualcuno venga pure in mente di tirarci su, che so io, un blog. Il Treggista Militante® non sente alcuno spirito concorrenziale; suo scopo primario è la diffusione del Verbo® (e. a volte, pure dell'Aggettivo e del Pronome), non quello di stabilire un esclusiva. A tale proposito, propongo volentieri a chi volesse prima o poi iniziare un utile esercizio.
Le cosiddette Tregge Fisse, vale a dire quelle che si trovano sempre nello stesso posto come se vi fossero state piantate, sono il modo migliore per cominciare. Ad esempio questa Fiat 126 di prima generazione (quando ancora non era diventata polacca, per intenderci) immatricolata il 21 luglio 1973; potete stare certi che la troverete sempre al posto suo, parcheggiata su un cancello del viale Evangelista Torricelli (quel bellissimo e scenografico viale di pini che una volta, giuro, ho sentito chiamare "viale Eulalia Torricelli"). Non è possibile sgarrare: andateci a qualsiasi ora, e lo constaterete. Fotografate e tentate di scriverci sotto qualcosa.
Le cose, poi, verranno da sé; l'importante è rómpe' i' diaccio. Scoprirete quante cose si possono dire a partire dalla foto di una vecchia macchina, mentre si va in giro (con ogni mezzo e con ogni tempo) ad esplorare gli angoli più dimenticati della propria città. Come si dirà treggia in milanese, in romano, in palermitano, in sassarese?
Proverete anche voi, forse, il desiderio di abbinare le immagini di una vecchia autovettura ad un brano musicale. Che ci abbia o meno a che fare qualcosa in senso diretto. Abbinare una musica a delle immagini non obbedisce sempre a canoni logici, anche se -chiaramente- se vedeste in giro un sottomarino giallo sarebbe probabile che lo abbinaste ai Beatles, o a Giorgio Gaber se v'imbatteste in una Torpedo blu. Ecco, casomai è un po' più difficile per una 126 amaranto; forse per una suggestione dei suoi anni, a me è venuto in mente questo.
Il posto, credo, lo avrete riconosciuto tutti quanti: è l'imbocco del Ponte Vecchio, a Firenze, dal lato di qua d'Arno. La foto speditami a suo tempo da Simone B. proviene, senz'ombra di dubbio, dalla seconda metà degli anni '30 e ci mostra un piccolo incidente stradale; erano tempi in cui, di macchine in giro, se ne vedevano ancora talmente poche che, ne sono certo, l'episodio non avrà mancato di fare notizia almeno in un trafiletto della Nazione. Quel che senz'altro più colpisce, è che sul Ponte Vecchio si potesse transitare in automobile. Provateci un po' ora a farlo (a parte, naturalmente, che non possediate una Ferrari, nel qual caso il Ponte Vecchio potete addirittura affittarlo col beneplacito del Comune e chiuderlo ai pedoni per tot ore).
Il Treggista Militante, naturalmente, ha qualche altra cosa da dire su questa foto dell'incidente occorso un qualche giorno di un'ottantina d'anni fa sul Ponte Vecchio. Mentre i rari passanti osservano comprensibilmente incuriositi, in primo piano si vede una Fiat 1500 (che pone il terminus ante quem della foto, dato che la sua produzione iniziò nel 1935) con una targa del tutto particolare, e non solo per le quattro cifre. E' la targa in sé ad essere particolare, dato che è di una provincia non soltanto scomparsa, ma addirittura non più facente parte del territorio italiano. La provincia di Fiume.
La targa FM 2213, quella che vediamo applicata alla 1500 andata a scontrarsi con un'altra autovettura sul Ponte Vecchio, è peraltro piuttosto famosa; si tratta di una delle pochissime immagini rimaste di una targa dell'antica provincia dalmata passata alla Jugoslavia nel dopoguerra. L'autovettura è anche registrata precisamente dalle tabelle estese di targheitaliane.com: risulta immatricolata nel febbraio 1936.
Automobilisticamente parlando, la "vita" della provincia di Fiume si svolse interamente nell'ambito delle quattro cifre. La provincia, letteralmente incastonata in territorio jugoslavo come exclave, si chiamava propriamente Provincia del Carnaro ma la sigla automobilistica era quella del capoluogo, Fiume appunto. Dopo un primo tempo in cui si utilizzò la sigla FU, ritenuta forse troppo "lugubre", si passò a FM reimmatricolando tutte le vetture già targate. La provincia, che comprendeva solo una piccola porzione dell'entroterra, constava di soli tredici comuni; visse fino al 1945, quando la città e il suo territorio passarono interamente alla Jugoslavia, ma l'ultima targa FM conosciuta, FM 4059, fu emessa dopo il febbraio del 1944. Da allora si parlò esclusivamente di Rijeka (che in croato significa, incredibilmente, "fiume"), sigla RI.
Sottolineando la coincidenza, squisitamente treggistica, che una macchina targata Fiume sia andata a sbattere contro un'altra proprio all'inizio di un ponte, bisognerà dire qualcosa anche sull'altra vettura coinvolta. La quale è, con pochi dubbi, una Fiat 508 Balilla, vale a dire la macchina più comune dell'epoca. Si può dire poco altro, perché della targa si vedono soltanto due cifre: un "1" sopra e un "2" sotto. Cionostante, si può facilmente intuire che si tratta di una serie FI 10000, iniziata nel maggio del 1930 e conclusasi nel luglio del 1936. Tutto questo contribuisce a fissare la foto dell'incidente sul Ponte Vecchio proprio al 1936.
Beh, non resta a questo punto che farvi ascoltare Dime Rita, che è l'inno fiumano e che, tuttora, viene cantato sia in italiano che in croato (in croato si chiama Kaži mi Rita). Fu scritto nel 1906, e questo preserva dal ricorrere a canzoni legionarie o roba del genere; gli autori erano Angelo Riccotti e Achille La Guardia, il padre del futuro sindaco di New York, Fiorello La Guardia.
E rieccoci in una delle due treggiaje dell'Isolotto, dietro casa mia. Una è la celeberrima via Ciseri (che, a dire il vero, da un po' di tempo è dormiente; ma si risveglierà...); l'altra è, invece, l'altrettanto celebre via Pio Fedi. La quale non è soltanto l'officina specializzata in auto d'epoca che vi si trova, e che rappresenta una fonte quasi inesauribile di tregge; via Pio Fedi se la caverebbe benissimo anche senza l'officina, come abbiamo più volte avuto modo di constatare. Nella fattispecie, il parcheggio del campo sportivo "Boschi" (sia esterno che interno) sembra essere un degnissimo concorrente anche se ha la tendenza a entrare in azione a tarda sera e di notte, perdipiù quando ho con me soltanto lo smartòfono e bisogna fare alla luce de' lampioni. Lampioni che, stavolta, ci consegnano questo perfetto esemplare di furgone filosofico.
Il furgone filosofico, va detto, è purtroppo una specie in via di estinzione. Ha avuto il suo momento d'oro negli anni '60 e '70, impersonato quasi esclusivamente dal Volkswagen T1 e T2, riconosciuti simboli hippy che venivano spessissimo istoriati con fiori e fiorellini, paesaggi ameni, soli e lune, emblemi pacifisti, arcobaleni e quant'altro; non di rado, vi si trovavano anche slogan (dal classico Make peace not war fino alle frasi gandhiane). Trovare in giro un nostranissimo Ducato filosofico, è più unico che raro: come si può vedere, c'è veramente di tutto (gli ovvi fiorellini, la balena, gli uccelli, i pesciolini, un imprecisato disegno polipoide...) e, soprattutto, il messaggio. In inglese, ovviamente, perché i messaggi in inglese funzionano meglio, sono universali. "Entusiasmo, Pazienza, Fede" è un messaggio che può essere compreso solo in un'insignificante penisola che si protende nel Mediterraneo, anche aggiungendovi un piccolo cantone svizzero e, ma sì, Malta e l'Albania; Enthusiasm, Patience, Faith viene capito in tutto il mondo e, va da sé, anche in via Pio Fedi all'Isolotto. O Small Island, come forse sarebbe meglio dire, no?
Certo, deh, per andare in giro con un tròschi del genere, di entusiasmo, di pazienza e di fede ce ne vogliono in abbondanza. L'istoriatura filosofica si limita alle fiancate, mentre sul retro appare, gnùdo e crùdo, un Ducataccio da lavoro di color bordò, che prima della filosofia deve aver visto parecchio materiale elettrico, tondini di ferro e secchi di vernice. La stuccaturona sul portellone rimanda a botte su muri non visti facendo marcia indietro e ad assai prosaici pali della luce; ma tant'è. Dal duro lavoro quotidiano alla filosofia il passo è breve. Resta da dire che non sarebbe poi poi stravecchio, essendo del 1992 e non appartenendo già più da tempo alla golden age dei furgoni filosofici; un colpo di coda del passato, verrebbe da dire, dopo gli anni '80 dell'edonismo reaganiano.
La canzone? Trovare canzoni attorno al 1992 che ci azzecchino qualcosa con un furgone del genere sarebbe impossibile; bisogna tornare per forza agli anni '60 e '70, ai falò sulla spiaggia, ai ragazzi con le chitarre e le tristi canzoni, alle dolci ragazze con gli occhioni grandi e sognanti (poi, giustappunto, portate dai ragazzi con le chitarre sul furgone filosofico, dove si faceva quella cosa che bisogna fare invece della guerra). Ci torniamo con una canzone che, a mio parere, deve avere incrementato non poco le nascite: Laleña, qui nella classicissima interpretazione di Donovan. E dico poco, eh. Entusiasmo, fede e tanta pazienza, specie quando la ragazzina non ci stava affatto.
Come Salento, senz'altro, siamo qui in un posto assai poco credibile e che non ha nulla né di Ostuni, né di Gallipoli e né di Capo Santa Maria di Leuca. Siamo, infatti, alla ERG in fondo al viale Etruria, o all'inizio della FI-PI-LI se si vuole; grossa stazione di servizio con annesso bar pasticceria aperto 24 ore su 24, ma dal quale periodicamente scompare la vendita di tabacchi. Famoso anche per un termometro completamente sballato che terrorizza, in estate, i turisti che vi si fermano con temperature tipo 48° (ma è arrivato a segnare 55° facendo svenire una famiglia di gitanti danesi che si era fermata, ignara, a fare rifornimento).
Il sole, però, ci picchia comunque sodo sul viale Etruria; ed è così che, almeno in questo, si abbina bene al Salento e, soprattutto, a questa smagliante Alfa Romeo Giulia salentina & smeraldina che sta per essere trasportata chissà dove, issata sopra un'autopiattaforma. Il Bollonet ACI qui non ci educe, ma le vecchie, care tabelle di Targheitaliane ci mettono davanti all'ennesimo, clamoroso esemplare di targa nera farlocca. La vettura, con tutta probabilità reimmatricolata, risulta infatti essere stata registrata nel 1979, mentre le targhe nere autentiche, nella provincia di Lecce, si sono fermate attorno alla serie LE220000.
La farlocchità della targa non deve comunque distrarci troppo, rimirando e ammirando la Giulia ultralùcida che splende nel sole del viale Etruria (sic). In fondo, le Tregge servono pure a questo: a suggerire diversi paesaggi e, in definitiva, una diversa realtà. Ma evito di addentrarmi nella complessa psicologia del Treggista®, sulla quale comunque ci sarà prima o poi da soffermarsi senza naturalmente avvertire il primo psichiatra che passa. E, nel mio caso specifico, sospetto che un bravo psichiatra ci avrebbe da lavorare parecchio.
Si termina quindi con una foto della Giulia salentina, con un omaggio agli addetti che se ne stanno occupando e al famoso termometro di cui sopra, che si nota sopra l'insegna "BAR". Trasferendosi idealmente in Salento, però, la musica cambia; ed è quello che vado a fare. Qui non ci può essere dubbio; e chissà che non si chiamasse Giulia pure la figlia di lu rre.
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