lunedì 15 febbraio 2010

Impiegati




Quando mio padre, nel lontano 1960 (o '61, e non posso dire neanche "non ricordo" perché ancora mi mancavano due o tre anni a nascere), prese la patente e si comprò la prima macchina, giocò un brutto tiro al suo collega di stanza in ufficio. Costui, che aveva già la patente, era proprietario di una Cinquecento grigio topo squisitamente impiegatizia, di cui magnificava le prestazioni. Nell'universo degli impiegati di un grosso ufficio pubblico, la macchina era, negli anni del boom, il simbolo dell'avvenuta conquista del benessere familiare: avere una Cinquecento (per la quale comunque partivano già svariati stipendi mensili) era già un bel balzo in avanti rispetto ai più, che ancora giravano in Lambretta, in bicicletta o coi mezzi pubblici.

Mio padre, che sapeva all'occorrenza essere un perfid'uomo, lasciò dire il collega per un bel po'; un bel giorno si presentò in ufficio tutto allegro, annunciando di avere finalmente comprato la macchina. Il suo collega si rallegrò con lui, ovviamente con una puntina di malcelata rabbia perché si vedeva raggiunto nello "status" automobilistico; e cominciò la solita solfa. "Vedrai quante soddisfazioni ti darà la Cinquecento!", e giù per un dieci minuti buoni. Alla fine, mio padre gli disse: "Ah, scusa, M., però ti volevo dire che ho comprato la Seicento..."

Silenzio. Gelo. La mazzata era stata tirata sapientemente e al momento giusto. La Seicento era qualcosa che andava oltre. Il fatto gli era che, oltre al lavoro normale d'ufficio, mio padre s'ingegnava con diecimila altri lavoretti che, in quegli anni, erano richiestissimi e procuravano dei bei dindini; insomma, a un certo punto, se ne ritrovò in tasca a sufficienza per campare agevolmente moglie, un figlio (io, ripeto, non ero ancora arrivato; per la cronaca, nelle intenzioni dei miei fabbricatori dovevo essere Anna Maria), un gatto, comprarsi una casa e pure la Seicento. Con la quale fece, un bel giorno, il suo ingresso trionfale nel parcheggio dietro l'ufficio mentre il suo collega (che non gli rivolse parola per due mesi, ma con il quale poi, fortunatamente, recuperò l'amicizia) si avviava mesto verso il suo incolpevole Cinquino grigio topo. Racconta mia madre che tornò a casa un po' sbellicandosi dalle risate, e un po' dispiaciuto per la carognata che aveva combinato all'amico e collega che, forse, con quella sua Cinquecento aveva rotto un pochino i coglioni. Così andavano le cose. Una storia, me ne rendo conto, terribilmente fantozziana. Però è grazie a 'ste fantozzate che, in buona parte, me la sono cavata nella mia vita per parecchi versi squinternata, folle, paradossale. Destino dei secondi figli, così almeno si suol dire.

Impossibile che non mi rivenisse a mente quando mi sono trovato davanti questa Cinquecento grigio topo (e coi sedili rossi), invero perfettamente serbata. Di qualche anno dopo, va detto; ma siamo pur sempre verso il '65. Si ragiona di quarantacinqu'anni fa, e Guido Gozzano a venticinqu'anni gridava di esser vecchio. Il risultato è che mio padre è morto, il suo collega e amico pure, la Seicento e la Cinquecento grigio topo sono chissà dove nell'ADT (Aldilà Delle Tregge) e io mi metto a fotografare. Non so se chi legge questo blog lo ha capito, ma io fotografo prevalentemente dei ricordi, e assieme a loro la mia vita e chi c'è stato e ci è rimasto dentro. In forma di vecchie automobili, d'accordo. Si vede che non sono buono a farlo in altri modi, ma ho in mente strade e ponti che vedo soltanto io.

Post Scriptum. "Targa particolare" o no? La sequenza non è certamente in ordine (e si noti che non manca l'immancabile 17...), però, come dire, "suona bene" (ventisette-novantasette-diciassette). Ma sì, va', mettiamocela...