venerdì 21 giugno 2013

Chegou o verão





E' arrivata, finalmente, l'estate; e il TB comincia a festeggiarla con delle foto sì estive, ma dell'estate scorsa. Sono tutte dovute ad una coppia assolutamente unica, quella formata dalla impareggiabile Dora,  la prima e storica collaboratrice del TB, e da INSCO, treggista sempre meno per caso. Costui, che ha girato e continua a girare mezzo mondo (con specializzazione riconosciuta in pietraje dell'Asia Centrale), lo scorso anno ha per l'appunto deciso di fare un bel viaggio di noz in quel del Portogallo, assieme alla Dora, riportandone fior di tregge che, da oggi, andiamo un po' a vedere.

Il Portogallo è, senz'altro, terra di tregge. Non solo: sebbene privo di sigle provinciali e di numerazione progressiva, ha comunque delle vecchie targhe inconfondibili, anch'esse bianche e nere (ma rettangolari, non quadrate). Le vecchie targhe portoghesi, che riportano all'epoca di Salazar e della Rivoluzione dei Garofani, sono state le uniche al mondo che avevano le cifre e le lettere in rilievo; qui ne vediamo, giustappunto, una sicuramente degli anni '70.

La stupefacente Fiat 127 (di prima generazione), presa in una stradina calcinata dal sole di qualche villaggio portoghese, è senz'altro uno dei capolavori della coppia Dora/INSCO. Altrimenti non saprei definirla, con la sua "bicolorazione" gialloverde che suggerisce antichi e mai spezzati legami luso-brasiliani. Del resto, se Fernandinho Pessoa andava a passare le sue mattinate al caffè "Brasileira" ci sarà stato un motivo, così come quello per cui sistemò il suo dottor Ricardo Reis in Brasile prima di farlo tornare a morire in Portogallo. 

Vorrei poter dire ancora qualcosa su questa macchina, se ne avessi gli elementi. Le foto, con il muro mezzo scrostato e mezzo intonacato alla perfezione in bianco e celeste (un motivo degli azulejos), sono tra le più belle del blog, a mio parere.

mercoledì 19 giugno 2013

Tradizione rispettata





In quel di Fosdinovo, sul far del tramonto dopo il Cuore della Rivolta del 25 aprile scorso e discendendo a piedi la ripida strada che circonda il paese malaspiniano, poteva non comparire una bella treggia parcheggiata sul ciglio della strada (e tenendo conto che, dietro il guard-rail, c'è uno strapiombo da fare paura...)? Certo che non poteva; e, naturalmente, anche la tradizione che vuole nessuna delle tregge della provincia di Massa-Carrara essere targata MS (si vede che hanno smesso di fumare...), anche la 2CV giallina di Fosdinovo è targata...Padova. E' del 1980.

martedì 18 giugno 2013

La treggia nella Storia (2). "Un'automobile nera, elegante, chiusa"


Sono le 16.15 del 10 giugno 1924. Sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, a Roma, è ferma un'automobile con alcune persone a bordo; la notano un paio di ragazzini, mentre sta arrivando, a piedi, uomo. Non appena giunge in prossimità dell'auto ferma, gli occupanti scendono, aggrediscono il passante e cercano di prelevarlo a forza. Il passante reagisce e si divincola, buttando un aggressore a terra; ma gli altri lo sopraffanno, lo caricano a forza sulla vettura e scompaiono.

Il passante era il deputato socialista  Giacomo Matteotti.
Gli aggressori, e rapitori, erano gli squadristi fascisti e membri della Polizia Politica Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo.


Appartengo a coloro che ancora sentono come pedantesco raccontare la vicenda di Giacomo Matteotti, ed il perché del suo rapimento e del suo assassinio. Ritengo che un simile atto non dovrebbe essere mai dimenticato, né a ottantanove e né a duecento anni di distanza; ma, forse, m'inganno. Su quella macchina "nera, elegante e chiusa", come testimoniarono i giovanissimi testimoni oculari, Giacomo Matteotti combatté ancora furiosamente nelle mani dei suoi rapitori, che lo uccisero abbandonandone il cadavere in aperta campagna, dove fu ritrovato il 16 agosto successivo. Pagò con la vita il coraggio di aver denunciato pubblicamente, in parlamento, le violenze, le intimidazioni e le truffe fasciste; e continuo a illudermi che tutto questo sia non solo ancora pienamente noto, ma anche che sappia dire qualcosa.

La vettura che fu la tomba di Giacomo Matteotti era una Lancia Lambda berlina, quando l'appellativo di "berlina" riportava ancora ad un'elegante carrozza personale. E' la vettura che si vede nella fotografia in alto.

Il luogo del rapimento di Matteotti, sul lungotevere Arnaldo da Brescia.
L'auto ferma è ancora la Lambda, riportata là per le indagini e i confronti coi testimoni.

Siamo nel 1924, quindi tre anni prima dell'introduzione, in Italia, del nuovo sistema di immatricolazione con la sigla della provincia e la cifra progressiva (1927). Nel sistema in vigore dal 1905, la cifra delle vecchie targhe italiane è sì ugualmente progressiva, ma al posto della sigla provinciale esiste un codice numerico, ordinato alfabeticamente, e di colore rosso; in pratica, il sistema non è dissimile da quello dei dipartimenti francesi. In base a tale codice, ad esempio, Firenze è indicata dal numero 25; Macerata dal 34; Milano dal 38, e così via. Dalla foto è possibile, seppure con difficoltà, leggere la targa che fu annotata dai testimoni: 55 - 12169. 55 era l'indicativo di Roma.

La Lancia Lambda risultava quindi immatricolata nel 1922 e la targa permise immediatamente agli inquirenti, guidati da un intransigente e coraggioso magistrato che aveva nel suo nome stesso il suo destino,  Mauro del Giudice, di capire immediatamente di che cosa si trattava. L'auto fu individuata due soli giorni dopo il rapimento di Matteotti: la sera prima, due coniugi, Domenico Villarini e Ester Erasmi, residenti nella zona, l'avevano già vista aggirarsi in modo strano e si erano annotati proprio la targa di cui sopra. L'auto era di proprietà del garage "Trevi" e adibita al noleggio, ma veniva di solito utilizzata dal direttore del "Corriere Italiano", Filippo Filippelli. Il "Corriere Italiano" era un quotidiano filofascista (vi collaborava lo stesso Benito Mussolini), ma era sorto per contrastare l'ala più oltranzista del fascismo; il direttore Filippelli, comunque, era direttamente coinvolto nel sequestro di Matteotti e fu per questo arrestato: aveva consegnato la macchina ai mandati reali, vale a dire Cesare Rossi (capo dell'ufficio stampa di Mussolini) e Giovanni Marinelli (segretario amministrativo del Partito Fascista). Il "Corriere Italiano" chiuse immediatamente: ultimi bagliori di libertà prima della notte fascista che durò fino al 1945.

Notizie posteriori su quell'automobile realmente storica non se ne hanno; a bordo recava ancora tracce di sangue e i segni di un accoltellamento. Una Lancia Lambda elegante e chiusa. E nera, sicuramente, non soltanto per la vernice.

Aggiornamento 14.11.2013

Mi scrive Simone B. da San Casciano Val di Pesa (Firenze): 

" Penso che lei abbia preso come fonte Wikipedia ma in questo caso l'enciclopedia online si sbaglia. Non è l'unica visto che sulla stessa vicenda si era sbagliato anche Indro Montanelli che nel suo L'Italia in camicia nera ipotizza addirittura che l'auto usata per il rapimento di Giacomo Matteotti fosse una Lancia Trikappa.

Il commando dei rapitori, guidato da fiorentino Amerino Dumini, non usò una Lambda ma bensì una ben più comune Lancia Kappa. Troverà molte conferme facendo una semplice ricerca su Google. Benché molto più veloce una Lambda non era proprio la macchina più adatta ad un rapimento in virtù della sua estrema riconoscibilità. "

Anche in questo caso ringrazio di cuore Simone per la precisazione e inserisco immediatamente l'aggiornamento del post stabilendo un'apposita categoria per la Lancia Kappa.

domenica 16 giugno 2013

Militanze




Com'è logico che sia per la città e per la provincia titolari di tutti i record di immatricolazioni in Italia, nel TB di automezzi targati Milano ce ne sono parecchi; targhe "MI" se ne trovano dalla Vetta d'Italia fino a Pantelleria, e Firenze non ne è certo immune. Però, qui, 'sta Fiat 127 blé scura è targata Milano perché sta a Milano; e sorge, imperiosa, una domanda: che diavolo ci faceva, ad ore tarde, il vs. Treggista Preferito® a Milano, aggirandosi per una strada -come si vede dalle foto- non propriamente da jet set nelle vicinanze di Piazza Bologna?

Presto detto. Era lo scorso 16 marzo (una giornata singolarmente primaverile nel capoluogo lombardo in una "primavera" per il resto dicembrina), per la manifestazione organizzata per ricordare Davide "Dax" Cesare,  il militante del centro sociale autogestito O.R.So. ammazzato dai fascisti esattamente dieci anni prima.


Quando parlo, spesso, di "treggismo militante", c'è quindi da tenere sempre presente che, per il sottoscritto, il termine "militante" ha un significato ben preciso, con tutte le sue conseguenze in termini di pensieri e azioni. E tutti questi aspetti, quel sedici marzo scorso, sono sembrati coincidere quando, a pochi metri dal luogo dove Dax è stato ammazzato, mi si è parata davanti, parcheggiata, una Fiat 600 che, a suo tempo, mi era stata inviata da Cristina la Meharista in una sua trasferta milanese. Durante il corteo. Fino a Milano per Dax, e mi ritrovo davanti una macchina presente già nel TB; a volte le "coincidenze" danno seriamente da pensare.

La sera, sempre nell'ambito delle manifestazioni, un concerto in un capannone occupato temporaneamente; e, nelle strade limitrofe, torna in azione il Treggista Militante®. Per prima con la Fiat 127 di cui sopra, del 1980.  Addirittura un modello, come recita la targhetta sul radiatore, da 70 hp; una specie di bomba ficcata in un'utilitaria, insomma. Da dire che il luogo dove mi stavo aggirando era, tipicamente, da tregge; come ci avevo messo piede, me lo ero immaginato. Da tregge di quelle vere, popolari, nella buia serata milanese che s'era rifatta fredda da bubbolare dopo il pomeriggio in cui un tiepido sole aveva deciso di ribadire che non sta, mai, dalla parte dei topi di fogna assassini.

Le Vespe di Mark B.



Tra il sottoscritto e Mark B. ci sono sempre state poche parole, e non nascondo che la cosa mi fa piacere dato che siamo sempre andati estremamente al sodo; ed il "sodo" di Mark, come sanno tutti coloro che frequentano il TB, consiste in tregge stupefacenti, e a getto continuato. Però, stavolta, Mark mi ha fatto un regalino parecchio particolare, aprendo nientepopodimeno che gli scrigni di famiglia; un gesto per il quale lo vorrei ringraziare ancor di più di quello che faccio di solito. Per presentare i "tesori di famiglia" vespistici di Mark, in questo caso gli lascio senz'altro la parola:
" Le mie Vespe. 
Quella grigia oggi è in fase di avanzato restauro ed è quella con cui ho "attraversato" l'Italia a cavallo fra gli anni 70 e 80. Al tempo l'avevo finemente truccata con tanto di alesaggio del cilindro a 136 cc e carburatore Dell'Orto da 24 mm, un giro la misi in moto e sbiellai distruggendo tutto il basamento del motore ( nel 1980 300.000 lire di danni!!). In ogni caso toccava comodamente il fondo tachimetro ed impennava anche in terza con un piccolo colpo di frizione, un vero spettacolo. Quella bianca è di mia sorella ed è ferma con 15000 Km dal 1980 circa."


Alpy


La Citroën 2CV Fourgonette, ovviamente derivata dalla Dédeuche, ha una storia lunga quasi quanto quella del modello principale: sull'onda dello spaventoso successo della 2CV, la versione "furgonata" fu cominciata infatti a produrre nel 1951; non è difficile vederne qualcuna di quell'epoca nei vecchi film francesi. Ben più difficile vederne una ancora per la strada, e perdipiù in Italia; in una delle ultime "prese al volo" prima dell'Appiedamento®, eccone qua una; probabilmente una delle più rare "trovaglie" di tutto il TB, almeno per quel che riguarda il vostro Treggista Preferito®.

Di fronte a una 2CV Fourgonette, inutile sottilizzare sulla targa; anzi, stavolta ho pure deciso di sfruttarla per dare un nome alla treggia. Con le lettere della targa viene fuori, infatti, un "Alpy" che, non so come, mi suona bene. Di colore militareggiante e con la Union Jack su una fiancata, Alpy sa un po' di Isola di Wight; per un po', lo confesso candidamente, mi mancheranno le care, vecchie prese al volo!

La 2CV Fourgonette, all'inizio, era davvero clamorosa. Nata treggia, si potrebbe dire; i progettisti, infatti, avevano preso di sana pianta il modello principale appiccicandogli un cassonetto di lamiera e tenendo il motore di 375 cc. I risultati erano contraddittori, mettiamola così; da un lato, era il più piccolo mezzo da lavoro prodotto in Francia (e forse nel mondo) -il che permetteva a fornitori, agli artigiani e ai colporteurs di accedere in posti proibiti ai furgoni più grossi, e di percorrere stradine sia di città che di campagna assolutamente off-limits; dall'altro, con la massa del cassonato, raggiungeva a malapena i 60 kmh vuota, e figurarsi a pieno carico. Aveva una capacità di carico di 250 kg, mica scherzi; provateci voi a caricare due quintali e mezzo di cianfrusaglie, e poi se ne riparla.

La produzione della 2CV Fourgonette, varianti "hippie" comprese, durò quasi trent'anni: nel 1980 fu mandata in pensione e sostituita da un furgoncino, a sua volta, derivato dall' "erede" della 2CV, vale a dire la Dyane; tale furgone si chiamò "Acadiane". Certamente il motore fu "potenziato", ma anche negli ultimi modelli non superò mai i 425 cc. In compenso, il volume del cassone fu aumentato a 400 kg (come quello di "Alpy", che dev'essere un modello degli anni '70), dimodoché furono mantenuti agevolmente i sessanta chilometri all'ora massimi. Bisognava, insomma, pigliarsela parecchio comoda; ed è una filosofia che, se ci si pensa bene, è stata la vera fortuna della 2CV, quella che ha fatto la sua immortalità.

Solo tra i flutti



A occhio e croce mi sembrerebbe Piazza della SS. Annunziata, e questa fotografia riassume a mio parere un po' tutta l'alluvione di Firenze del 4 novembre 1966, almeno dal punto di vista automobilistico. Un automezzo, solo, abbandonato in mezzo ai flutti limacciosi prima di essere sballottato chissà dove e finire infangato in qualche catasta. Un Fiat 600T, vale a dire un piccolo furgone da lavoro che, quel giorno, ha smesso per sempre di lavorare. Non troverei altro da dire, e mi fermo qui.

La Viennese, ovvero L'Appia dell'Appiedato




A parte le bagnoles françaises e qualche treggia teutonica, sono scarse le tregge con targa straniera presenti sul TB. Un po' perché le autentiche tregge che si sono sobbarcate un viaggio in Italia non sono molte, e un po' (tanto) perché a me le targhe non italiane fanno piuttosto caà'. Le targhe automobilistiche sono una delle due sole cose al mondo per le quali sono assolutamente nazionalista (l'altra sono le parole crociate): sostengo l'assoluta e intrinseca superiorità italiana. Le nostre vecchie targhe quadrate sono di una bellezza unica, oltre a permettere di risalire facilmente all'anno di immatricolazione di un automezzo. Anche per questo continuo a disprezzare le attuali targhe "alfanumeriche".

Prendiamo questa Lancia Appia reperita nel piazzale della Costoli, al Campo di Marte; con una targa italiana avrei potuto dirvi immediatamente di che anno è. Invece ha una targa austriaca (di Vienna) seguita da un blob indistinto di numeri e letteracce, che mi fanno gridare allo scandalo. Ad una vettura del genere dovrebbe essere impedito dal diritto internazionale di montare una targa che non sia italiana. Ma tant'è; una Lancia Appia, una delle quali ha avuto l'onore di essere la prima "treggia del logo" di questo blog, va comunque fotografata, ancorché viennese. Tanto più visto che si tratta di una Appia di prima serie, vale a dire del primo modello prodotto dal 1953 al 1959. La prima Appia dell'Appiedato non può essere tralasciata. Però, perdìo, quando ho scorto la targa austriacante ho spedito un vaffanculo; andavo speranzoso pregustando una FI 9, o una Roma 25, o qualcosa del genere (ho assunto per decreto l'anno 1956), e mi sono ritrovato una "W" come Würstel, mandando coloriti accidenti al walzer,  a Cecco Beppe e a Haider.

venerdì 14 giugno 2013

La betoniera nel campo diventa ravennate & pure titanica!


E rieccoci, per la terza volta, a parlare di una certa (e oramai celeberrima) betoniera.

Sì, proprio lei, ancora. Quella nel campo pressoché inaccessibile vicino a casa mia; oddio, chissà, forse sarà inaccessibile per il sottoscritto; il quale non si fa notare certo per gazzellesca agilità. Se avessi avuto i classici venticinqu'anni in meno, poi...è probabile che sarei stato il solito "gatto di piombo" di ora, perché piccinino e scattante non lo sono mai stato.

Un po' troppo entusiasta sono stato a suo tempo nell'attribuire alla betoniera abandonnée una targa fiorentina e nel "situarla" all'anno 1956. Ci ha pensato, quindi, uno degli attentissimi lettori del TB, Vittorio P., il quale, oltre a dichiararsi disponibile ad una spedizione nel famoso campo, ha avuto senz'altro un'occhio un po' più allenato del mio.

Mi ha scritto, infatti, una mail un mese fa, alla quale ho risposto soltanto oggi. E qui si apre una piccola parentesi dedicata a tutti coloro che mi scrivono: non vi stupite, esterrefate & (soprattutto) incavolate se mi vedete rispondere dopo lassi di tempo inenarrabili. Nessun pretesto: io, con le mail, sono un'autentica disgrazia del genere umano. Però, anche se con dei ritardi olimpionici, rispondo sempre; su questo ci potete contare. Portate pazienza; ma se non la portate, mi prendo tutta la mia meritata dose di sfanculate.

Vittorio P., insomma, ha scrutato ben bene le foto della betoniera da me postate il 3 maggio scorso e ne ha tratto delle conclusioni importanti, che inficiano (giustamente) tutto ciò che avevo scritto allora.

1) Innanzitutto, la betoniera non è affatto targata FI, ma RA (Ravenna, insomma). E dire che, in fondo, dalla foto da me scattata si vedeva anche abbastanza bene; sicuramente mi sono lasciato prendere un po' troppo dal facile entusiasmo della trovaglia, e giù coi miei voli pindarici. Vittorio ha rimesso tutto al suo posto: la targa è RA 93000 e qualcosa, e ciò ci riporta ad un più "umano" 1965. Addio betoniera quasi sessantenne, ed eccola ringiovanita ad una quarantottenne; magari non le dispiacerà...

2) Vittorio, che sospetto un "camionologo" di vaglia (e quella del Treggista Pesante® è una categoria di cui, invero, nel TB c'è un gran bisogno...) ha individuato anche il modello: si tratta di OM Titano. Nome del tutto azzeccato, perché per un "bestio" del genere le Officine Meccaniche non potevano certo ricorrere ai soliti cuccioli. Per confermare che non si trattava proprio d'un cucciolo, Vittorio mi manda anche il "suo" OM Titano, da lui fotografato, con gran rimpianto senza targa:


Insomma, un bel postacchione di rettifica e integrazione; però resta la voglia di penetrare in quel malnato campo, per fotografare la ravennate quarantottenne. Si sa bene che queste romagnole si difendono bene, anzi benone! Con un grazie ancora, e grosso come un Titano, a Vittorio per la sua attenzione che ha evitato al TB una grossa, anzi titanica, imprecisione.

Delfina valdarnese



 Il qui presente, deve confessarlo in tutta sincerità, non ha mai frequentato granché il Valdarno (si dice così usualmente, anche se, a rigor di logica, si dovrebbe dire la Valdarno, dato che è "Valle dell'Arno" e "valle", perlomeno fino a stanotte, era ancora di genere femminile in lingua italiana). Considerazioni grammaticali a parte, la mia rara frequentazione di tale plaga (soltanto, tempo fa, una puntata in quel di Figline che pure fruttò parecchie e interessanti tregge presso una tipica carrozzeria) mi ha evidentemente impedito di reperire "pezzi da 90" come questa Renault Dauphine più o meno de' primi frangenti del 1961. Per fortuna che il, o la, Valdarno, lo/la frequenta assiduamente il nostro insostituibile Mark B., che specifica che la vettura in questione proviene da S. Giovanni; fatto rimarchevole, perché S. Giovanni Valdarno, amministrativamente, fa parte della provincia di Arezzo anche se -da sempre- "gravita" molto più su Firenze con la quale condivide pure il prefisso telefonico (055). E anche, evidentemente, tregge di tutto rispetto.

Alcuni si saranno forse chiesti come mai il fortunato modello della Renault porti questo nome di "Delfina" (Dauphine). Chiaramente si rifà alla storia della Francia, cosa più che naturale per la casa automobilistica di stato; in particolare, come tutti sanno, dauphin (col femminile dauphine) era il titolo che spettava al principe ereditario francese (così come in Inghilterra è il principe di Galles, e nell'impero russo era lo zarevich). Un breve ma preciso articolo Wikipedia spiega come mai dai simpatici e intelligenti cetacei si sia passati, in Francia, ai prìncipi del più alto lignaggio e, di rimando, pure alle tregge del '61 ritrovate da Mark B. a San Giovanni Valdarno. Fatto vieppiù notevole, dato che nell'Arno, a S. Giovanni, di solito non allignano delfini neppur di fiume (come le famose inie che tormentano da sempre i cruciverbisti...), bensì, al massimo, bacteria coli di simili dimensioni.


martedì 11 giugno 2013

La treggia nella Storia. (1) La fucilazione del questore Caruso



Con questo post, il Treggia's Blog compie una sorta di "salto di qualità" ed entra nella Storia, quella vera. La Storia del XX secolo è stata, necessariamente, fatta anche dalle automobili; è raro che un dato fatto non abbia avuto con sé una macchina di qualsiasi tipo. In migliaia di filmati storici, ora disponibili in Rete, è possibile cogliere automezzi che vi sono stati presenti; solo che, finora, ben pochi se ne sono occupati. E' anche del tutto comprensibile; solo che, in un blog di Treggismo Militante® come questo, è gioco forza mettersi dalla parte del mezzo meccanico, o meglio: è la Storia che resta e deve restare protagonista, ma con un occhio all'automezzo che vi ha preso parte. Si tratterà di fatti di ogni tipo, dai più tragici a quelli più "leggeri"; in questi post, lo avverto fin da ora, è possibile che siate messi di fronte a immagini e filmati molto forti.

Il 22 settembre 1944, in una Roma da poco liberata dall'occupazione tedesca e che aveva, nel marzo, vissuto l'attentato di via Rasella e l'eccidio delle Fosse Ardeatine il questore fascista Pietro Caruso, 45 anni, nativo di Maddaloni (CE), fu trasportato nel corte del Forte Bravetta e passato per le armi con fucilazione nella schiena. Da poco si era concluso il suo breve e drammatico processo.

Si legge nella pagina Wikipedia: "Dopo l'attentato di via Rasella [Pietro Caruso] fu chiamato da Herbert Kappler a redigere un elenco di 80 persone da giustiziare che fu ridotto, dopo le sue rimostranze, al numero di 50. Il Caruso ebbe a dichiarare, nell'udienza del 20 settembre 1944, che a tale ordine si oppose dicendo che non vi poteva incondizionatamente aderire e che ne avrebbe dovuto parlare con il Ministro degli Interni che sapeva essere a Roma. Sempre secondo le sue dichiarazioni rese durante il processo, Pietro Caruso il 24 marzo a mattina si sarebbe recato all'Hotel Excelsior di Roma per conferire con il Ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi al quale avrebbe detto «Io mi rimetto a voi», con la speranza che il Ministro avesse provveduto direttamente con Herbert Kappler. Il Ministro avrebbe tuttavia risposto «Che cosa posso fare? Bisogna che tu glieli dia se no chissà cosa succede. Sì, sì, dalli». Tali dichiarazioni trovano riscontro nella sentenza di condanna a morte pronunciata dall'Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il Fascismo, dove si si legge «il Caruso che pur ebbe a sentire la repugnanza di quanto gli si chiedeva, ritenne di conferire nelle prime ore del giorno con il Ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi, alloggiato all'Albergo Excelsior il quale, ancora a letto, gli avrebbe, a suo dire, dichiarato che non era possibile non ottemperare alle pretese tedesche». Sempre nell'udienza del 20 settembre 1944 il Caruso, durante la sua deposizione ebbe a dichiarare di non aver preparato lui direttamente la lista delle persone da giustiziare, lista peraltro in parte redatta da Pietro Koch e che per completarla dette incarico al Capo di Polizia Ferrara sostenendo di non conoscere nessuno dell'elenco a eccezione di Maurizio Giglio. Herbert Kappler, il comandante tedesco della Gestapo di Roma, organizzò l'eccidio delle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, come ritorsione per l'attentato di via Rasella del giorno prima compiuto da partigiani comunisti dei GAP contro una colonna di soldati tedeschi. Alle Fosse Ardeatine i nazisti fucilarono 335 persone scelte tra ebrei, partigiani (molti dei quali appartenenti alla formazione "Bandiera Rossa") o semplici sospetti. Nella sua deposizione al processo, come teste dell'accusa, il Professore Attilio Ascarelli affermò che le salme esumate furono 336: la 336ma vittima fu trovata in una galleria diversa in atteggiamento diverso e caratteri cadaverici diversi. Il 4 giugno 1944, mentre gli anglo-americani si apprestavano a entrare in Roma Caruso, alla guida di una autocolonna, si dirigeva verso nord, con una Alfa Romeo carica d'oro, di gioielli, 5 orologi "a saponetta" da uomo, molte sterline e lire. La vettura di Caruso perse il contatto con la colonna a causa delle ripetute incursione aeree alleate, perdendosi nella zona del lago di Bracciano. Ritrovata la strada per Firenze, a seguito di nuovi mitragliamenti aerei, per evitare un'auto tedesca urtò contro un albero. Pietro Caruso (insieme a un milite) rimase ferito riportando una lussazione del femore. Un'ambulanza tedesca lo trasportò all'Ospedale di Viterbo dove Pietro Caruso, nonostante avesse un documento falso, fornì le sue vere generalità. Nessuno fece caso all'identità del ferito a eccezione di un avvocato romano, casualmente presente, che lo riconobbe. Dopo aver subito un intervento chirurgico, vanamente Pietro Caruso, anche offrendo denaro e gioielli, chiese di essere trasportato al nord. Lasciato solo, fu arrestato dai partigiani e fu tradotto, dopo una breve degenza presso l'Ospedale di Bagnoregio, a Regina Coeli."

Durante il processo, la folla tentò di linciare l'ex questore; non essendovi riuscita, se la prenderà con Donato Carretta, ex direttore del carcere di Regina Coeli, presente in aula come testimone per l'accusa, e che sarà gettato a morire nel Tevere e successivamente appesso a testa in giù all'entrata del carcere. Il processo a Pietro Caruso fu brevissimo (20 e 21 settembre 1944); l'imputato fu condannato a morte per fucilazione nella schiena.

L'intera esecuzione di Pietro Caruso fu filmata. La proponiamo qui, avvertendo ovviamente che si tratta di immagini molto crude. Non si tratta di una finzione scenica, ma di una vera esecuzione capitale, e delle più terribili. Non guardate questo video se non ne siete veramente sicuri.


Se avete guardato il video, avrete notato i numerosi automezzi presenti, a partire dal furgone cellulare in cui Pietro Caruso fu condotto alla fucilazione. Particolare risalto ha l'autofunebre con cui la salma del questore fu portata via; tra tutti gli automezzi del filmato, è l'unico di cui si può leggere chiaramente la targa. Ecco un altro fermo immagine dal filmato:


Siamo, lo ripetiamo, il 22 settembre 1944; l'autofunebre, non riconoscibile quanto a modello, è targato Roma 62048. L'automezzo risulta quindi immatricolato nel 1938.

Facendo un salto indietro, ecco un immagine chiara dell'ignoto furgone cellulare (probabilmente con immatricolazione militare) dal quale sta scendendo il condannato:


Questo è invece il momento in cui la bara contenente la salma del questore fascista viene infilata nel carro funebre con le portiere posteriori spalancate. Nella foto si intravede l'avanti di un'altra autovettura sconosciuta con una strana livrea a strisce bianche:


Qui, invece, l'autofunebre con di nuovo la targa del 1938 in evidenza, svolta nell'andare via accompagnata dai carabinieri del plotone di esecuzione e da altre persone:


Dell'esecuzione di Pietro Caruso esiste anche un altro filmato, volendo ancora più crudo, conservato presso gli archivi di Steven Spielberg. Da questo filmato, un'immagine del mezzo sul quale era sistemata l'attrezzatura per le riprese:


Dal medesimo filmato, un'immagine importante dal punto di vista automobilistico: si tratta dell'ingresso nel cortile di Forte Bravetta del furgone cellulare con sopra Caruso, che abbiamo visto poco sopra e che qui appare nella sua interezza seguito proprio dall'autofunebre, di cui si riesce così a stabilire l'avanti:

In conclusione, una serie di immagini veramente drammatiche, e che rendono appieno la cupa e tragica atmosfera di quei tempi durissimi. Anche con i loro automezzi. 

Si ringrazia David Mattacchioni per l'assistenza prestata nella redazione di questo post.

White





L'introduzione, qui, è inutile: sarebbe, infatti, esattamente la stessa che per lo Yellow di qualche giorno fa. Stesso posto, a pochi metri di distanza; stesso camper; stesso anno di immatricolazione (il 1976); e non ci sarebbe da stupirsi se anche il proprietario fosse lo stesso. Gli appassionati di T1 e T2 si faranno anche calare nella tomba a bordo del loro trasportatoio preferito, del resto. Cambia solo il colore: da "Yellow" si passa a "White".

domenica 9 giugno 2013

L'ultima del '12



Il Treggia's Blog va avanti, come è facilmente intuibile, grazie ad una "provvista", o "scorta"di tregge molto consistente. Non segue un ordine stagionale, o cronologico; inserisco le foto quando sento di avere sia pur qualcosina da dire sul mezzo che raffigurano, e non è quasi mai una cosa automatica. Del resto, quel che distingue il TB da tutti gli altri blog, o siti, dedicati alle vecchie autovetture ancora circolanti, è proprio questo: ogni mezzo, una storia. Triste, originale, banale, allegra, tecnica, ironica, quattro parole in croce o un papier fluviale, la storia che accompagna la treggia è sempre là, fin dal primo giorno. E qualche briciola di mondo è stata pur raccontata.

Così, per questa Vespa 125 Primavera del 1976 si è dovuto attendere qualcosa di un po' particolare per poter confezionarle addosso qualcosa da dire. E' un caso più che frequente: quello in cui non viene veramente un accidente di niente da scrivere. E la treggia rimane lì nell'archivio, le altre passano, finché non rimane sola. L'Ultima. E, infatti, 'sta pòera Vespa era l'ultima rimasta nell'archivio fotografico del 2012. Per scriverci qualcosa sopra è occorso aspettare che rimanesse là, sola soletta. Se lo meritava? Non se lo meritava? E chi lo sa. Ma arriva le jour de gloire anche per lei, eroica sopportatrice di culi varij sul sellino da trentasette anni, e con lei l'intero anno 2012 va in archivio.

Mors tua, vita mea


Il vecchio adagio latino trova una perfetta applicazione in questa foto (Alinari, nientepopodimeno!) dei giorni successivi all'alluvione del 4 novembre 1966. Una accanto all'altra, sull'allora più che consueto scenario di mobili infangati messi fuori delle case distrutte, una Fiat 600 del 1963 al pari di quella "da ripulire" inserita pochi giorni fa, ma miracolosamente ancora pienamente in sesto (semplicemente, sarà provenuta da qualche zona non alluvionata; Firenze è città collinare!), e una Fiat 500 ridotta a un'impressionante mascherone di fango e nafta. Uno spettacolo usuale nella Firenze di quei giorni, come le cataste di automobili che ostruivano le strade del centro e che vedremo meglio nei prossimi post dedicati alle "Tregge alluvionate".

sabato 8 giugno 2013

Yellow






Esistono in ogni città le cosiddette zone da camper. Un camper, anche di dimensioni non enormi, non è un mezzo con il quale si va in giro tutti i giorni (anche se girano centinaia di SUV, a pensarci bene, che sono, in parecchi casi, più grossi). Un camper lo si tiene parcheggiato da qualche parte, generalmente non sotto casa; ci vogliono grossi piazzali (tipici quelli dei centri commerciali), vialoni con controviali, ampi parcheggi e quant'altro. Il Treggista Militante® conosce tutte queste zone e le batte non di rado, perché sa che, prima o poi, qualcosa ci trova. E non solo camper, perché tali zone sono spesso popolate anche da tregge "normali".

Così, da una di queste zone da camper, eccovene giustappunto un tipico esemplare: un T2 giallo e bianco, privo del cerchio "VW" anteriore che gli dà, come d'ire, un'aria un po' tenerona e un po' spaesata. Fornito anche delle tendine che fanno tanto Fräulein teutonica. Altra caratteristica standard: la targa non del posto. Il camper, specie d'annata, è un mezzo che gira e rigira, specie dopo che hanno invetato eBay: quindi è comunissimo vederne di targati Campobasso a Gorizia, o Oristano e Mazara del Vallo, o Pistoia a Benevento. Questo qui è un milanese a Firenze: esempio abbastanza raro di targa aranciobianconera milanese ancora con la lettera al primo posto (poi passerà in fondo, poi al secondo posto e, infine, addirittura al terzo dove si concluderanno, nel '93, le strabordanti targhe milanesi). Con questo "Yellow" siamo, per farla breve, al 1976.

mercoledì 5 giugno 2013

Per tornare sottocasa



Non lasciatevi ingannare dal paesaggio della stradina bucolico-antica: anche qui siamo sottocasa, all'Isolotto. L'Isolotto è uno strano quartiere dove convivono gran verde pubblico, palazzoni e pezzi di superstiti e vecchissimi sobborghi. Qui siamo, forse, nella più bella strada di tutto il quartiere: una via che risponde al curioso nome di Via del Palazzo dei Diavoli. E poiché, per un suo bel tratto, corre parallela ad un'altra via che si chiama "Torcicoda", si possono fare strani accostamenti, tipo torcere la coda ai diavoli...insomma, toponomastica molto particolare.

In questi ultimi tempi, via del Palazzo dei Diavoli me la sto facendo parecchie volte a fettoni, e non è una cosa automatica. La strada comincia all'incrocio tra via Bronzino e via Antonio del Pollaiolo e va avanti fino in pieno Isolotto, per quasi tre chilometri; e sono tre chilometri sorprendenti, tra vecchie case, l'oratorio rinascimentale, giardini segreti e odor di pasta di pane. Chi pensa all'Isolotto come a un "quartiere dormitorio" o roba del genere, si vede che non ci abita, e anche che non sa vivere i quartieri. Sottocasa, e non soltanto per le tregge, bisogna andarci con l'animo di un esploratore urbano; in vita mia non me ne è mai importato nulla di andare a esplorare posti a cinquecentomila chilometri di distanza, quando a cinquecento metri ho tutto quel che mi serve per esercitare l'ardua arte della curiosità inesauribile. Gambe in spalla, e via!

Finora, però, questa satanica via non aveva mai prodotto nulla in termini treggistici, e parecchio me ne crucciavo. Arriverà il suo momento, ne sono certo; nel frattempo, ci si contenta di questo candido Käfer del 1973, aspettando il botto dei Diavoli. Chissà: forse, diabolicamente, uno dei suoi giardini nasconde la treggia del secolo...

Auto o moto, sempre PS 8




Sulle strane alchimie che presiedono al Treggismo Militante® ci si potrebbe scrivere un libro che incontrerebbe parecchio successo presso i cabbalisti; e, in effetti, quando l'età avanzata non mi consentirà più di andare a caccia di tregge ho in programma di scrivere le Memorie di un Treggista. Chissà che non riesca così a garantirmi la famosa serena vecchiaia!

Tra queste strane alchimie, possiamo metterci anche il "PS 8". Quando incontro una treggia pesarese (a Firenze: confesso di non aver messo mai piede in vita mia a Pesaro...), auto o moto che sia, è sempre targata "PS 8...." e qualcosa. Così, ad esempio, uno dei pezzi più pregiati e rari dell'intero TB. Stavolta invece tocca a questa Kawasaki GP 550, gran motociclettona del 1982. Quando si becca una Kawasaki, a Firenze è gioco forza ricordare come la chiamavano, con ardita e stupenda metatesi, i fiorentini dell'epoca: Kakavasi. E, maledizione, ero un fiorentino dell'epoca, diciannovenne con un gran futuro davanti. Lasciamo perdere, vah...

Tornando alla nostra PS 8 motociclistica (che sembra l'avverbio "sotto" pronunciato da Eta Beta), da notare un'altra strana alchimia: le tregge motociclistiche, sovente, non vanno da sole. Accanto c'è una moto trentina non meglio identificata del 1991. Un po' troppo "giovincella", forse, per rientrare nel TB; ma ha pur sempre più di vent'anni.

Pausa pausa ritmo lento



Se il vostro Treggista Appiedato Preferito® oramai le "prese al volo" non le fa più, tranquilli: ci pensa Mark B., autentico acrobata della treggia. Stavolta, con questa Fiat Ritmo del 1978 si è esibito addirittura in una specie di curva parabolica; e rimango sempre stupito delle evoluzioni che Mark fa per fotografare le tregge. Un vero e proprio funambolo che il TB si onora di avere tra i suoi principali contributori.

"Fiat Ritmo del 1978". Questo potrà non dire molto al profano, ma al Treggista Militante® dice invece parecchio. Siamo qui di fronte a uno dei primi esemplari di Ritmo immatricolati a Firenze; la produzione dell' "erede della 128", infatti, iniziò proprio in quell'anno. Ho avuto anch'io una Ritmo (del 1980: era targata FI A51135), la quale mi ha fatto vivere il mio personale 11 settembre, dato che proprio l'undici settembre 1990 mi prese fuoco poco dopo aver messo in moto davanti a casa mia. Pensare che nel mese di agosto c'ero arrivato fino in Grecia, e passando per tutta l'ex Jugoslavia (per la famosa e terribile Jadranska Magistrala, dal valico di Pesek fino a Gevgelija in Macedonia). A ripensarci, dopo aver traversato tutte le zone che soltanto l'anno dopo sarebbero state in guerra, mi viene da dire che la povera Ritmo non poteva che pigliare fuoco. Così è, rivedendomi mentre scendo dalla macchina in fiamme e prendere una corsa che, in quel momento, avrebbe dato del filo da torcere anche al compianto Mennea.

Ma avevo, ohimé, ventisette anni allora. Ora tutto si fa più lentamente, e la mia appiedatura mi consentirà perlomeno di non dover fare fugoni dall'ultima macchina che ho avuto, una candidata perfetta a qualche cosa di clamoroso. Pausa pausa ritmo lento, come cantava Enzo del Re; e così, lentamente, mi guardo la Ritmo trentacinquenne fotografata parabolicamente da Mark ed ho qualcosa sul viso come una specie di sorriso.

L'arduo caso della famigliola diffidente



Claudio G., presumibilmente da Trento & provincia (la quale entra così nella grandefamìglia del Treggia's Blog con ogni mia più sana godüria), mi spedisce queste foto di una bella e rara Simca 1000 scattate nel parcheggio di un discount delle su' parti. Devo confessare la mia grande passione per le sinche mille (ricordarsi sempre che, a Firenze, si fa rigorosamente il plurale dei nomi delle macchine: una sinca, du' sinche così come una panda, du' pande); quindi, quando se ne presenta una mi ci dedico immediatamente.

A Claudio, come mi racconta nella mail di accompagnamento alle foto, è capitata l'evenienza peggiore che possa capitare a un Treggista Militante®: la cosiddetta Famigliuola Diffidente (ingl. Suspicious Nice Family, ted. kleine, verdächtige Familie). Gli è infatti successo di beccare all'uscita l'intera famigliuola del proprietario (padre, madre e du' figli), e sembra che il pater familias lo abbia guardato parecchio di traverso. Usualmente, un proprietario "single" è ben disposto verso il Treggista®; quando, però, è in compagnia di moglie e prole scattano in lui i meccanismi mentali più complessi. Prima di tutto, chi fotografa una macchina dev'essere per forza un malintenzionato che sta progettando chissà quale nequizia; oppure, peggio ancora, è uno sbirro.

Ad ogni modo, Claudio se la è cavata più che egregiamente; indi per cui il sottoscritto, che è non soltanto del tutto bendisposto verso le famigliuole ancorché diffidenti (nonostante la mia ben nota inimicizia che riservo all'istituzione familiare, ai family days e a tutta la cazzateria made in family di questo mondo), ma è devoto soltanto al Treggismo® senza compromessi e caterpillaresco, provvede immediatamente a pubblicare l'ottima performance dell'amico trentino (cui vanno, ovviamente, tutti i ringraziamenti possibili e immaginabili).

La sinca mille in questione potrebbe essere degli ultimi giorni del 1969 o dei primi del 1970. Come dicono gli stròlaghi (compreso lo stròlago Solimano, sul quale si basano le previsioni del Sesto Cajo Baccelli), siamo sulla cuspide. Come specifica opportunamente Claudio, la vettura è stata con tutta probabilità posseduta ingiojellatamente da un pensionato che l'ha tenuta religiosamente al coperto, per poi esser venduta per cinque euri o roba del genere (magari, come succede spesso in questi casi, alla dipartita del proprietario da questa valle di làgrime -però ci si piange parecchio bene). Quanto al colore, beh, gli anni '60 e '70 sono stati titolari di combinazioni cromatiche veramente irripetibili per granitica orripilanza. Codesto colorino qui lo potremmo chiamare ejaculazione d'iguana, o orgasmo di varano di Komodo; ci vuole qualcosa di verdognolo, insomma. Potrebbe andare anche color passatina di finocchi andati a male.

martedì 4 giugno 2013

Arradìcchiagnene!




Andando un po' a ruota libera (e se non si va a ruota libera qui...), si torna per un posticino (da intendersi come "piccolo post", ndr) allo scorso inverno; anzi, se la memoria non mi falla, questa Vespa trevigiana del 1965 è stata proprio la prima treggia fotografata nel 2013, il primo o il due di gennaio. Il Treggista Militante® (in quel momento non ancora appiedato) ne ha viste oramai di cotte e di crude, ma un raduno vespistico in pieno gennaio ancora non gli era mai successo. I raduni di Vespe sono, di solito, roba da primavera; persino una famosa Vespa si chiama così, e è andata a finire che, quest'anno, gli sventurati che hanno organizzato il raduno nel mese di maggio si sono ritrovati...in pieno inverno. Tanto valeva fare come questi, che il raduno con le Vespe lo hanno fatto in gennaio, facendosi beccare con le adorate motorette e coi furgoni di trasporto proprio dietro lo Stadio Comunale di Firenze. Infatti si noterà che la Vespa arradicchiata (il grido arradìcchiagnene!, se non lo si fosse capito, è un omaggio comosso al celeberrimo abburracciùgagnene del cinema Universale) è proprio all'interno di un furgone.

Giusto una ripulitina



Questa Fiat 600 era del 1963; a giudicare dalle tabelle, che dicono che il 16 ottobre di quell'anno si era a FI 227030, avrebbe potuto essere esattamente mia coetanea. Aveva quindi, il 4 novembre del '66, soltanto tre anni; proprio come me. Ma mi sa, purtroppo, che la sua storia si sia interrotta a quella data; la foto rende perfettamente l'idea di che cosa si sia in realtà abbattuto su Firenze grazie al suo grazioso fiumicello. Si dice "alluvione" e si pensa, certo, all'acqua; ma l'acqua che invade una città è una densa e ripugnante mistura di ogni sorta di troiaio che essa raccoglie. A Firenze, in quel periodo, significava fango, liquami e nafta; insomma, tutto ciò che si vede sulla povera Seicento.

L'Alluvione di Firenze, in modo del tutto diretto, ha contribuito a fare di Firenze una città dove la treggia è merce un po' più rara che altrove; una catastrofe che distrugge ventimila automobili non può che avere questo effetto. Si spiega così anche la contemporanea, maggiore frequenza delle tregge immatricolate a partire dal 1967: tra quell'anno e il 1973 (l'anno della prima, grande crisi energetica) non solo fu ricostituito l'intero parco auto andato perso con l'inondazione, ma Firenze ebbe quel "grande balzo in avanti" che la portò, ad esempio, a "staccare" città ben più grandi come Genova e Bologna (nel '66, Genova era circa a GE 300000 e Bologna a circa BO 270000).

Detto questo, chissà; naturalmente non si può sapere la sorte della Seicento della foto. L'essere rimasta sommersa per un giorno intero da quell'immondo merdajo non fa pendere l'ago della bilancia dalla parte del recupero, ma quien sabe; magari, giusto una ripulitina e via...

lunedì 3 giugno 2013

Da Plato con fulole





Plato, glosso sobbolgo industliale alla pelifelia di Filenze, gode di uno stlano destino. Da vent'anni esatti ha la plovincia, tanto agognata; pelò, le tlegge platesi le sono ancola tutte talgate FI. A dile il velo, qualche talga "PO" gnela dèttelo pe' falli contenti; ma il tlenta dicemble 1998, data dell'ultima emissione, si felmalono a PO 010798. Una miselia, mentle la città si stava lapidamente tlasfolmando in un'appendice di un'altla plovincia, quella dello Yunan.  Fatto sta che, tuttola, è assai più facile tlovale a Plato un'autovettula talgata "FI" che una "PO", ed è il caso anche di questo splendido (e avito) T2 della fine del 1969 lepelito in una tlavelsa del Viale della Lepubblica (Popolale Cinese). E gli amici platesi non si adomblino se li meleggio un po': meleggiale i platesi, come si sa, è un dovele e un piacele, anche se folniscono belle tlegge come questa, ovviamente talgata come si deve.