lunedì 16 marzo 2015

La Dolly



Di fronte alla Dolly, non vale nessuna distinzione di targhe nere, targhe bianche, targhe blé o targhe a pallini: si fotografa, e basta. Sugli abbinamenti cromatici delle Dédeuches di ogni epoca ci si potrebbe scrivere un libro, ma confesso che l'accostamento tra il grigio e il rosso mi è sempre piaciuto parecchio (senza per questo nutrire nessun particolare attaccamento alla squadra della Cremonese). Siamo qui, oltretutto, in una delle più belle e, forse, anche più antiche viuzze dell'Oltrarno: via Ardiglione. Ma perché proprio Dolly? Ce lo dice la vettura stessa:


Ignoro francamente se si tratti proprio di uno specifico sottomodello, oppure se il proprietario o la proprietaria abbia voluto paragonare la sua Duhavalli (difussa anche la variante Du' Lalli) alla famosa e tipica pupa del saloon dei film western ("Dolly la Rossa") -ritenendo altamente improbabile che abbia pensato all'altrettanto celebre pecora clonata. Fatto sta, va detto, che il nome "Dolly" le sta particolarmente bene. Come tutti sanno, io sono assolutamente favorevole a dare un nome alle macchine: in famiglia mia c'è stata, ad esempio, la Poldina (la Simca 1000 di mio zio Dino) e l'indimenticabile Agedabia della zia Egle, ma tutte le mie macchine hanno avuto un nome, a partire dall'Agapina per finire alla mitica Plog. Anzi, se per caso vi pigliasse la voglia di dare un nome alla vostra macchina, ma non sapeste proprio dove andare a sbattere la testa, sono a vostra disposizione completa; grullo come sono, potete star certi che vi troverò il nome più adatto.


Quanto alla nostra Dolly in sé, di cui qua sopra si ammira il retro sgalettante, beh, targabianca targabià è andata a finire che ha già la sua bella trentina d'anni, segno di una evidente reimmatricolazione: secondo il Bollonet ACI è stata infatti immatricolata il 31 ottobre 1985, e quindi la targa che ha ora non corrisponde affatto alla cronologia (è del 1989).



Cosittumpàri...!



Forse qualcuno si sarà chiesto come mai, quando si tratta di inserire antiche foto (questa è stata fatta pervenire da un mostro sacro del TB: Mark B.), si va spesso a cascare in immagini di incidenti stradali; talmente spesso, oramai, che ho deciso di istituire una speciale categoria. La cosa è però abbastanza logica, se ci si pensa bene: nei primi (e anche nei secondi) tempi dell'autolocomozione a motore, un incidente -anche il più lieve e banale- era una notiziona. Circolavano, nelle città, talmente poche automobili, che quando due andavano a sbattere l'una contro l'altra era un avvenimento che richiamava fotografi e reporter. Eppure, ebbene sì, le macchine riuscivano anche allora a andare a picchiarsi contro (qui, addirittura, due camion). Allora doveva fare lo stesso effetto di due cammelli che andavano a sbattersi contro in mezzo al deserto; però, come si vede dalla foto, le modalità erano le stesse di ora. Passo io....? No, passo io!! Icchett'hadètto...?!?! Ora 'e ti fo vedere chi passa....! E vadavùma!!! Ecco, te l'avevo detto! Cosittumpàri a 'un fammi passare...!!!

Siamo, evidentemente, in una stretta strada del centro di Firenze, con tanto di curva parecchio rognosa. Tra i due camion, quello rivolto di muso sembra avere avuto decisamente la peggio, sfasciandosi mezzo contro il cassone dell'altro. Del quale, però, non si legge né s'intuisce minimamente la targa. Del camion più danneggiato, invece, si vede (a fatica) la targa anteriore: FI 1158 (o meglio, secondo lo stile dell'epoca: 1158 FI). Viene da dire che, senza gli incidenti, le famose Quattro Cifre sarebbero ancor meno di quelle superstiti in immagine (di superstiti reali, ancora in circolazione, non se ne ha notizia). Poiché la targa FI 1161 fu emessa il 12 luglio 1927, e questa la precede di sole tre unità, siamo allo stesso giorno, o al massimo al giorno prima; la foto potrebbe essere dei primi anni '30.

Per la canzone, devo dirlo, sono parecchio in difficoltà. Nei tempi eroici ce n'erano eccome, di canzoni dedicate all'automobile; ma trovarne una dedicata a due camion pieni di copertoni e altre cianfrusaglie, mi sarebbe davvero arduo. Per questa volta, insomma, sono costretto a soprassiedere, rimandando tutto al prossimo post. Perdonatemi, ma consolatevi immaginando l'antica scazzottatura fra camionisti che, sicuramente, ci dev'essere stata.

Transittando per Varzi



Varzi è in provincia di Pavia, e quindi, a rigore, non si dovrebbe parlare di Tregge piacentine. Però si andava a Varzi da Piacenza, e a Piacenza si è tornati; quindi questa squisita treggia pavese viene attribuita a Piacenza un po' arbitrariamente, certo, ma pur sempre con qualche fondamento.


Un Ford Transit delle prime generazioni fa, come dire, sempre notizia. In mancanza di meglio, si può dire che dev'essere di poco posteriore al gennaio 1975; in quarant'anni ne deve aver transittata di gente e di roba, con quel suo bell'arancione sgargiante (e la striscia laterale rossa).


Ancora aveva una linea facilmente riconoscibile come British; è diventato, poi, un furgone pienamente "internazionale". A rigore si tratta di una Seconda Serie (prodotta dal 1965 al 1978); ma pochi sanno che il Transit è in produzione fin dal 1953, cosa che lo rende probabilmente uno degli automezzi attualmente in produzione da più anni. Sessantadue, per la precisione; siamo attualmente alla settima serie.

Aprendo una parentesi, sarà ben difficile vederne in giro qualcuno della Prima Serie, quella del 1953 e successivi. È veramente roba da collezionisti e da autoraduni. Curiosamente, questo simbolo della Ford inglese nacque in Germania; denominato in origine FK 1000 (ove "FK" stava per "Ford Köln", ovvero Ford Colonia), assunse il nome di "Transit" (o meglio, di Taunus Transit) soltanto nel 1961. Qui sotto ne vediamo un modello del 1964:


E che gli si abbina, come canzone, a un furgone prodotto in oltre tre milioni di esemplari, da moltiplicare per chissà quante centinaia di migliaia di chilometri ciascuno? Si potrebbe coprire la distanza da qui a Saturno, mi sa. Ci vuole qualcosa che parla di strada, e per la bisogna ho scelto questo classico pezzo dei Canned Heat che mi sembra ci stia parecchio bene:



giovedì 12 marzo 2015

Kanji e Katakana



Il TB ha una certa qual tradizione nipponica; ad esempio, e solo per dirne una, tuttora il post più visitato di tutto il blog risulta essere quello del 29 agosto 2011, relativo a un'autovettura giapponese e, soprattutto, con il titolo interamente nei micidiali caratteri giapponesi (che devono avere attratto parecchio gli aficionados del Treggia's Blog). Questo è il motivo per cui questo post si apre con una visione un po' insolita: quella di un serbatojo con impressi sopra dei segnacci incomprensibili, il primo dei quali sembra un qualche osso della colonna vertebrale, il secondo una "Y" e il terzo sembra indicare 7 secondi.  E' il modo in cui scrivono i giapponesi, mescolando caratteri di origine cinese (kanji) e due sillabari, detti katakana e hiragana, nonché nonseparandominimamenteleparolecosìcomestoscrivendoora. A loro sta bene così, e chissà che c'è scritto sul serbatojo della motocicletta. Motocicletta?


Ecco qua di che cosa si tratta veramente. Uno stupefacente sidecar di vecchio stile nipponico, militaresco, inossidabile e composto di una moto Honda che qui vediamo sul romanticissimo sfondo di un Doblò furgonato della Telecom, sul piazzale della piscina Costoli al campo di marte (recentemente ribattezzato "Piazza Enrico Berlinguer", dal nome di un nobile sardo di origine catalana, di antica e ricca famiglia di proprietari terrieri).


Naturalmente, ora tutti voi vi direte: "Ecco svelato il mistero dei segnacci! C'è scritto Honda!". L'ho pensato anche io; col cavolo. "Honda", in giapponese, si scrive così: 本田. Nulla a che vedere con i caratteri del serbatoio. Chissà che accidenti ci sarà scritto, magari chi la ruba faccia harakiri oppure fior di loto del benzene aromatico celeste del Sol Levante. 


Anche se la targa (FI 214391) non si legge bene, colpa le condizioni di luce, siamo qui ad un'epoca in cui le moto giapponesi (e figurarsi i sidecar) erano ancora parecchio esotiche nel Paesello del Sol Calante: il motociclo risulta infatti immatricolato il 15 giugno 1974. Probabilmente, allora non si capiva ancora bene come mai uno dovesse andare a pigliarsi un "coso" giapponese quando esistevano le Guzzi, le Laverda, la Moto Morini, la Gilera...


A proposito. Ora vi aspettereste sicuramente qualcosa di giapponese, la canzoncina dei cartoni animati, la poesia sulla bomba atomica...e invece mi voglio rifare proprio alla chiusa di questo post con una canzonetta dove, per altro, c'è anche qualche moto giapponese. Non consiglierei però l'ascolto di questo classico pezzo della canzone impegnata italiana (oserei dire impegnatissima), ai giovanissimi treggisti in erba. Dé, era tanto che volevo fare il parental advisory!

giovedì 5 marzo 2015

Una bella scotchatura




Per quanto ce ne siano ancora tantissime in circolazione in una città di media grandezza come Firenze, le tregge non sono infinite e oltre la metà sono Cinquini. Per ogni Treggista Militante® che si rispetti, è quindi giocoforza beccarle e ribeccarle, in punti differenti della città (e spesso lontanissimi l'uno dall'altro) e, in alcuni casi, letteralmente per anni. Se per caso foste in compagnia di un Treggista e lo vedeste, ad un certo punto, fare gesti come battersi la mano sulla fronte e esclamare semplicissime frasi come : Oh poffarbacco! Sono al cospetto di un reiterato ritrovamento di un autoveicolo già a me ampiamente cògnito!, sappiate che detto Treggista ha, appunto, ribeccato una vettura che ha già visto parecchie volte. E' un po' come una figlia sua; ne conosce ogni centimetro quadrato, ogni particolare, ogni più minuta alterazione. Prendiamo ad esempio questa 500 maremmana, che il vostro Treggista Preferito® ha osservato letteralmente ovunque in città; è stata immatricolata un non vicinissimo 28 ottobre 1970 e nelle prime due fotografie la vediamo nel mese di luglio dello scorso anno.

Che cosa si nota, quasi di prim'acchito? Una caratteristica di parecchie 500, vale a dire la targa posteriore un po' malmessa. Le targhe nere erano assai poco adatte alla "bombatura" del cofano motore della prodigiosa vetturetta; ci venivano sforzate (e spesso ingabbiate una cornicetta metallica), si torcevano, formavano una specie di "camera" dove si accumulavano acqua e troiai vari e andava a finire che si spaccavano. Il Cinquino con la targa posteriore imbozzolita è un'immagine consueta e, direi, classica per chiunque si sia ritrovato a osservare le 500 con un po' di attenzione. Dài picchia e mena, la targa si staccava; e andare in giro senza targa (a meno di non essere a Beirut durante la guerra civile o nel Nicaragua in lotta per cacciare il dittatore Somoza) potrebbe comportare qualche lieve problema al quale occorre ovviare.


La foto sopra ritrae il nostro Mezzosacco grossetano qualche mese dopo e, naturalmente, agli antipodi cittadini. Come si può facilmente osservare, il problema della targa è stato risolto avvalendosi dei più moderni e sophysticati mezzi messi a disposizione dalla tennologìa: quattro be' pezzi di nastro isolante nero, che costa poco, appiccica bene e, durcissinfùndo, non ci sta poi male nemmeno dal punto di vista æsthetico. Come dire: un problema risolto con una scotchatura.


A tale riguardo, forse a qualcuno potrebbe interessare come mai il nastro adesivo viene chiamato scotch ("scozzese"). Non ha nulla a che vedere col whisky, né col fatto che sia stato inventato in Scozia o da uno scozzese; pare che il suo inventore alla 3M, mi sembra negli anni '30 del secolo scorso, ebbe a lamentarsi parecchio perché nelle prime versioni ci avevano messo poco collante, e il nastro non appiccicava proprio una sega. Ebbe quindi a esclamare assai risentito, avvalendosi di un noto luogo comune relativo all'avarizia di una popolazione celtica: Ma che cosa debbo constatare? Siete forse scozzesi? E metteteci più colla, per la barba di s. Girolamo, altrimenti ce lo tirano dietro! Così fu; e la cosa ebbe talmente successo, che "scozzese" (scotch) si chiamò il nastro adesivo e, addirittura, il marchio della 3M divenne un motivo che riprendeva il tartan, il caratteristico tessuto dei gonnellini scozzesi. Pensate un po'.

Giunti alla musichetta, avevo pensato giustappunto di ispirarmi allo scotch. Si fosse trattato del whisky, non avrei avuto che l'imbarazzo della scelta; ma una canzone ispirata da un nastro adesivo, beh, è un po' più difficile trovarla. Ne conosco una, però dov'è almeno nominato espressamente, il nastro de scotch, e ve la vado a far sentire anche perché lo merita per davvero.



martedì 3 marzo 2015

Mèrica



America? Gli americani non la guarderanno mai questa foto, scattata probabilmente agli inizi degli anni '60 all'incrocio tra via di Peretola e via delle Compagnie. Peretola, antichissimo sobborgo di Firenze, già nominato nel Decamerone e, almeno secondo la banda della trattoria "Da Burde", che ne ha fatto un autentico credo, luogo dove si svolge la vicenda del burattino Pinocchio. E anche il luogo dov'è nata l'America. La foto ritrae infatti quella che, si dice, sia la più antica casa e il focolare originario della famiglia Vespucci. No, forse gli americani non se lo immaginano che tutto il loro armamentario, il God bless America, l'America first, Capitan America e tutto il resto, ha avuto origine a Peretola grazie a un ragazzaccio giramondo di nome Amerigo (antico nome di origine germanica), per tramite di due giovani e geniali cartografi alsaziani, Martin Waldseemüller e Matthias Ringmann che, nel 1507, diedero quel nome al nuovo continente nella loro carta Universalis Cosmographia. Individuarono in Amerigo Vespucci, da Peretola, il vero e cosciente scopritore dell'America come continente a se stante (e non certamente un genovese che era alla ricerca delle "Indie" e che andò a sbattere casualmente nell'isola di Hispaniola). 

Universalis Cosmographia, 1507, Waldseemüller/Ringmann.
Gli americani non hanno mai riflettuto a fondo sul kiulo che ci hanno avuto. "America" suona bene, è un nome nato mediatico. Sì, certo, il genovese ci ha avuto il suo District of Columbia e lo stato della Colombia, ma il continente è fiorentino. Anzi, peretolano. Immaginatevi un po' se il grande navigatore si fosse chiamato, che so io, Pinzauti; ora ci avremmo la Pinzaùzia, God bless Pinzautia e gli United States of Pinzautia (USP). Invece no; ci abbiamo l'America. 

La Storia, insomma, nasce sovente dove meno ci si aspetta. Via delle Compagnie è una stradina cortissima proprio all'inizio di via di Peretola, con le sue corti secolari e gli aeroplani che decollano e atterrano vicino ai tetti delle case. L'aeroporto, naturalmente, si chiama Amerigo Vespucci; e una via de' Vespucci si perde da Peretola verso via del Barco. Chissà chi ha scattato quella fotografia, che peraltro ci interessa anche in senso strettamente treggistico; la casa sarà sì due o trecentesca (ne fa fede la loggetta tipica dell'epoca), ma l'improvvisato fotografo non ce l'ha fatta di certo a rimuovere due simboli della modernità, una motocicletta che chissà che diavolo è, e una macchina.


All'ingrandimento, appare il retro di una Fiat 1400, una vettura di fascia alta che, a quei tempi, poco ci si sarebbe aspettata in un sobborgo popolare come Peretola, fatto di contadini, renaioli e pescatori. E si pensi se, all'epoca, fossero state di moda le attuali bischerate sulla privacy; non si sarebbe mai saputo che la targa, FI 81996, riporta a qualcosa tra il luglio e il novembre del 1955. La foto, ripeto, dev'essere di qualche anno dopo. Nulla è dato invece sapere sulla motocicletta, ma chissà che qualcuno degli infallibili occhi di lince che popolano il TB non la riconosca.

Non resta che augurarsi che la Fiat 1400, parcheggiata sotto la casa di Amerigo Vespucci, abbia navigato a lungo (evitando magari di farlo verso il novembre del 1966). Navigato parecchio, di sicuro, devono averlo fatto decine di migliaia di emigranti verso quell'America che prendeva nome da un peretolano; e anche, di sicuro, chissà quanti peretolani e fiorentini, spinti dalla fame e dalla mancanza di lavoro. Non andavano a esplorare, nella Mèrica. E, magari, se il Vespucci lo avesse saputo, sarebbe andato a farsi un giro in montagna.



Esercizio per Treggisti in erba



Agli albori del TB, il fatidico primo di giugno del 2009, cercai di andare sul sicuro. Le prime tregge di questo blog non furono né improvvisate, né scovate per caso: in realtà, le vedevo da anni e sempre nello stesso posto. E m'immagino facilmente a quanti di voi, che magari seguite il TB da tempo (per passione, per curiosità o chissà per che cos'altro), sarà successo lo stesso: la vecchia autovettura catalizza l'attenzione per forza di cose. "Toh! Ce ne sono ancora in giro!"; un pensiero assolutamente tipico. A qualcuno di voi, senza naturalmente scomodare i Treggisti professionisti come Mark B., Simone B. e altri, sarà capitato di fare persino qualche fotografia, almeno nei casi più eclatanti; la speranza, malcelata, è che prima o poi a qualcuno venga pure in mente di tirarci su, che so io, un blog. Il Treggista Militante® non sente alcuno spirito concorrenziale; suo scopo primario è la diffusione del Verbo® (e. a volte, pure dell'Aggettivo e del Pronome), non quello di stabilire un esclusiva. A tale proposito, propongo volentieri a chi volesse prima o poi iniziare un utile esercizio.


Le cosiddette Tregge Fisse, vale a dire quelle che si trovano sempre nello stesso posto come se vi fossero state piantate, sono il modo migliore per cominciare. Ad esempio questa Fiat 126 di prima generazione (quando ancora non era diventata polacca, per intenderci) immatricolata il 21 luglio 1973; potete stare certi che la troverete sempre al posto suo, parcheggiata su un cancello del viale Evangelista Torricelli (quel bellissimo e scenografico viale di pini che una volta, giuro, ho sentito chiamare "viale Eulalia Torricelli"). Non è possibile sgarrare: andateci a qualsiasi ora, e lo constaterete. Fotografate e tentate di scriverci sotto qualcosa.


Le cose, poi, verranno da sé; l'importante è rómpe' i' diaccio. Scoprirete quante cose si possono dire a partire dalla foto di una vecchia macchina, mentre si va in giro (con ogni mezzo e con ogni tempo) ad esplorare gli angoli più dimenticati della propria città. Come si dirà treggia in milanese, in romano, in palermitano, in sassarese?


Proverete anche voi, forse, il desiderio di abbinare le immagini di una vecchia autovettura ad un brano musicale. Che ci abbia o meno a che fare qualcosa in senso diretto. Abbinare una musica a delle immagini non obbedisce sempre a canoni logici, anche se -chiaramente- se vedeste in giro un sottomarino giallo sarebbe probabile che lo abbinaste ai Beatles, o a Giorgio Gaber se v'imbatteste in una Torpedo blu. Ecco, casomai è un po' più difficile per una 126 amaranto; forse per una suggestione dei suoi anni, a me è venuto in mente questo.


Passando il Fiume



Il posto, credo, lo avrete riconosciuto tutti quanti: è l'imbocco del Ponte Vecchio, a Firenze, dal lato di qua d'Arno. La foto speditami a suo tempo da Simone B. proviene, senz'ombra di dubbio, dalla seconda metà degli anni '30 e ci mostra un piccolo incidente stradale; erano tempi in cui, di macchine in giro, se ne vedevano ancora talmente poche che, ne sono certo, l'episodio non avrà mancato di fare notizia almeno in un trafiletto della Nazione. Quel che senz'altro più colpisce, è che sul Ponte Vecchio si potesse transitare in automobile. Provateci un po' ora a farlo (a parte, naturalmente, che non possediate una Ferrari, nel qual caso il Ponte Vecchio potete addirittura affittarlo col beneplacito del Comune e chiuderlo ai pedoni per tot ore).

Il Treggista Militante, naturalmente, ha qualche altra cosa da dire su questa foto dell'incidente occorso un qualche giorno di un'ottantina d'anni fa sul Ponte Vecchio. Mentre i rari passanti osservano comprensibilmente incuriositi, in primo piano si vede una Fiat 1500 (che pone il terminus ante quem della foto, dato che la sua produzione iniziò nel 1935) con una targa del tutto particolare, e non solo per le quattro cifre. E' la targa in sé ad essere particolare, dato che è di una provincia non soltanto scomparsa, ma addirittura non più facente parte del territorio italiano. La provincia di Fiume.

La targa FM 2213, quella che vediamo applicata alla 1500 andata a scontrarsi con un'altra autovettura sul Ponte Vecchio, è peraltro piuttosto famosa; si tratta di una delle pochissime immagini rimaste di una targa dell'antica provincia dalmata passata alla Jugoslavia nel dopoguerra. L'autovettura è anche registrata precisamente dalle tabelle estese di targheitaliane.com: risulta immatricolata nel febbraio 1936.

Automobilisticamente parlando, la "vita" della provincia di Fiume si svolse interamente nell'ambito delle quattro cifre. La provincia, letteralmente incastonata in territorio jugoslavo come exclave, si chiamava propriamente Provincia del Carnaro ma la sigla automobilistica era quella del capoluogo, Fiume appunto. Dopo un primo tempo in cui si utilizzò la sigla FU, ritenuta forse troppo "lugubre", si passò a FM reimmatricolando tutte le vetture già targate. La provincia, che comprendeva solo una piccola porzione dell'entroterra, constava di soli tredici comuni; visse fino al 1945, quando la città e il suo territorio passarono interamente alla Jugoslavia, ma l'ultima targa FM conosciuta, FM 4059, fu emessa dopo il febbraio del 1944. Da allora si parlò esclusivamente di Rijeka (che in croato significa, incredibilmente, "fiume"), sigla RI. 

Sottolineando la coincidenza, squisitamente treggistica, che una macchina targata Fiume sia andata a sbattere contro un'altra proprio all'inizio di un ponte, bisognerà dire qualcosa anche sull'altra vettura coinvolta. La quale è, con pochi dubbi, una Fiat 508 Balilla, vale a dire la macchina più comune dell'epoca. Si può dire poco altro, perché della targa si vedono soltanto due cifre: un "1" sopra e un "2" sotto. Cionostante, si può facilmente intuire che si tratta di una serie FI 10000, iniziata nel maggio del 1930 e conclusasi nel luglio del 1936. Tutto questo contribuisce a fissare la foto dell'incidente sul Ponte Vecchio proprio al 1936.

Beh, non resta a questo punto che farvi ascoltare Dime Rita, che è l'inno fiumano e che, tuttora, viene cantato sia in italiano che in croato (in croato si chiama Kaži mi Rita). Fu scritto nel 1906, e questo preserva dal ricorrere a canzoni legionarie o roba del genere; gli autori erano Angelo Riccotti e Achille La Guardia, il padre del futuro sindaco di New York, Fiorello La Guardia.



Fede, entusiasmo e...



E rieccoci in una delle due treggiaje dell'Isolotto, dietro casa mia. Una è la celeberrima via Ciseri (che, a dire il vero, da un po' di tempo è dormiente; ma si risveglierà...); l'altra è, invece, l'altrettanto celebre via Pio Fedi. La quale non è soltanto l'officina specializzata in auto d'epoca che vi si trova, e che rappresenta una fonte quasi inesauribile di tregge; via Pio Fedi se la caverebbe benissimo anche senza l'officina, come abbiamo più volte avuto modo di constatare. Nella fattispecie, il parcheggio del campo sportivo "Boschi" (sia esterno che interno) sembra essere un degnissimo concorrente anche se ha la tendenza a entrare in azione a tarda sera e di notte, perdipiù quando ho con me soltanto lo smartòfono e bisogna fare alla luce de' lampioni. Lampioni che, stavolta, ci consegnano questo perfetto esemplare di furgone filosofico.


Il furgone filosofico, va detto, è purtroppo una specie in via di estinzione. Ha avuto il suo momento d'oro negli anni '60 e '70, impersonato quasi esclusivamente dal Volkswagen T1 e T2, riconosciuti simboli hippy che venivano spessissimo istoriati con fiori e fiorellini, paesaggi ameni, soli e lune, emblemi pacifisti, arcobaleni e quant'altro; non di rado, vi si trovavano anche slogan (dal classico Make peace not war fino alle frasi gandhiane). Trovare in giro un nostranissimo Ducato filosofico, è più unico che raro: come si può vedere, c'è veramente di tutto (gli ovvi fiorellini, la balena, gli uccelli, i pesciolini, un imprecisato disegno polipoide...) e, soprattutto, il messaggio. In inglese, ovviamente, perché i messaggi in inglese funzionano meglio, sono universali. "Entusiasmo, Pazienza, Fede" è un messaggio che può essere compreso solo in un'insignificante penisola che si protende nel Mediterraneo, anche aggiungendovi un piccolo cantone svizzero e, ma sì, Malta e l'Albania; Enthusiasm, Patience, Faith viene capito in tutto il mondo e, va da sé, anche in via Pio Fedi all'Isolotto. O Small Island, come forse sarebbe meglio dire, no?


Certo, deh, per andare in giro con un tròschi del genere, di entusiasmo, di pazienza e di fede ce ne vogliono in abbondanza. L'istoriatura filosofica si limita alle fiancate, mentre sul retro appare, gnùdo e crùdo, un Ducataccio da lavoro di color bordò, che prima della filosofia deve aver visto parecchio materiale elettrico, tondini di ferro e secchi di vernice. La stuccaturona sul portellone rimanda a botte su muri non visti facendo marcia indietro e ad assai prosaici pali della luce; ma tant'è. Dal duro lavoro quotidiano alla filosofia il passo è breve. Resta da dire che non sarebbe poi poi stravecchio, essendo del 1992 e  non appartenendo già più da tempo alla golden age dei furgoni filosofici; un colpo di coda del passato, verrebbe da dire, dopo gli anni '80 dell'edonismo reaganiano. 

La canzone? Trovare canzoni attorno al 1992 che ci azzecchino qualcosa con un furgone del genere sarebbe impossibile; bisogna tornare per forza agli anni '60 e '70, ai falò sulla spiaggia, ai ragazzi con le chitarre e le tristi canzoni, alle dolci ragazze con gli occhioni grandi e sognanti (poi, giustappunto, portate dai ragazzi con le chitarre sul furgone filosofico, dove si faceva quella cosa che bisogna fare invece della guerra). Ci torniamo con una canzone che, a mio parere, deve avere incrementato non poco le nascite: Laleña, qui nella classicissima interpretazione di Donovan. E dico poco, eh. Entusiasmo, fede e tanta pazienza, specie quando la ragazzina non ci stava affatto.


lunedì 2 marzo 2015

Salento



Come Salento, senz'altro, siamo qui in un posto assai poco credibile e che non ha nulla né di Ostuni, né di Gallipoli e né di Capo Santa Maria di Leuca. Siamo, infatti, alla ERG in fondo al viale Etruria, o all'inizio della FI-PI-LI se si vuole; grossa stazione di servizio con annesso bar pasticceria aperto 24 ore su 24, ma dal quale periodicamente scompare la vendita di tabacchi. Famoso anche per un termometro completamente sballato che terrorizza, in estate, i turisti che vi si fermano con temperature tipo 48° (ma è arrivato a segnare 55° facendo svenire una famiglia di gitanti danesi che si era fermata, ignara, a fare rifornimento).


Il sole, però, ci picchia comunque sodo sul viale Etruria; ed è così che, almeno in questo, si abbina bene al Salento e, soprattutto, a questa smagliante Alfa Romeo Giulia salentina & smeraldina che sta per essere trasportata chissà dove, issata sopra un'autopiattaforma. Il Bollonet ACI qui non ci educe, ma le vecchie, care tabelle di Targheitaliane ci mettono davanti all'ennesimo, clamoroso esemplare di targa nera farlocca. La vettura, con tutta probabilità reimmatricolata, risulta infatti essere stata registrata nel 1979, mentre le targhe nere autentiche, nella provincia di Lecce, si sono fermate attorno alla serie LE220000. 


La farlocchità della targa non deve comunque distrarci troppo, rimirando e ammirando la Giulia ultralùcida che splende nel sole del viale Etruria (sic). In fondo, le Tregge servono pure a questo: a suggerire diversi paesaggi e, in definitiva, una diversa realtà. Ma evito di addentrarmi nella complessa psicologia del Treggista®, sulla quale comunque ci sarà prima o poi da soffermarsi senza naturalmente avvertire il primo psichiatra che passa. E, nel mio caso specifico, sospetto che un bravo psichiatra ci avrebbe da lavorare parecchio.


Si termina quindi con una foto della Giulia salentina, con un omaggio agli addetti che se ne stanno occupando e al famoso termometro di cui sopra, che si nota sopra l'insegna "BAR". Trasferendosi idealmente in Salento, però, la musica cambia; ed è quello che vado a fare. Qui non ci può essere dubbio; e chissà che non si chiamasse Giulia pure la figlia di lu rre.




Continuum



Delle mie scomparse e dei miei ritorni inutile starne oramai a parlare; ho un continuum tutto mio particolare, e così sia. Si riprende quindi come se nulla fosse, come se non fosse successo nulla. E, infatti, come sempre, tutto succede e niente accade, al tempo stesso. 

Finalmente alle soglie della primavera, il Treggia's Blog torna con le margheritine e col suo accidentatissimo continuum (che, forse, sarebbe meglio chiamare discontinuum). Lo fa col muso leggermente incavolato di una vetturetta che, a modo suo, ha fatto la storia: l'Autobianchi A112.


In quanto mezzo meccanico, un'automobile non dovrebbe avere alcuna distinzione di genere; la realtà, come sovente accade, è differente. L'A112 è sempre stata donna. Aveva in ragazze, donne e signore anziane il suo "pubblico", in tempi in cui le utilitarie facevano le utilitarie. Difficile incontrare un'A112 in mano a un maschietto, come era difficile, che so io, vedere una 500 Giardinetta in mano a una femminuccia; l'unica vera utilitaria unisex era la 500, e per il resto c'erano invece decise preferenze. Va da sé, ad esempio, che la mia attempata professoressa di matematica delle medie, la Bensi, aveva una A112. Bianca e con pochissimi chilometri. L'unico essere umano, la Bensi, che sia riuscita, per un periodo, a farmi amare la matematica; un ricordo è d'obbligo, visto che oramai è da tempo nel mondo dei più assieme alla sua A112 (targata FI 71 e qualcosa).


Questa qua, invece, è più antica. Secondo il Bollonet dell'ACI è stata immatricolata il 24 novembre 1971; ma non si tratta, comunque, di uno dei primi esemplari. Appartiene, certo, al primo periodo "classico" della vetturetta, prima delle varie versioni che andarono avanti fino al 1986; ma la A112 nacque nel 1969.

Narrano le historie che la sua nascita dovéttesi allo "strapotere" che, su una certa fetta di mercato, esercitava allora l'Inglesina, la Mini Minor prodotta in Italia dalla Innocenti e che si era accattivata larga fetta del mercato giovanile in quegli anni in cui tutto era giovane. La Autobianchi, già allora nel gruppo FIAT, rispose con il "Progetto X12" studiato nientepopodimeno che da Dante Giacosa. E fu un successone, anche se il mercato rispose in modo un po' inatteso.

Fu, da subito, auto da donne. Spesso neopatentate e effettivamente giovincelle (ma non necessariamente), ma irrompendo anche nel cuore delle zie e, a volte, delle nonne. Carina, il giusto elegantina e il giusto aggressiva, assolutamente non impiegatizia (il rag. Fantozzi continuava a andare sulla Bianchina, per intenderci), maneggevole, facile da mandare. I giovinotti continuarono, insomma, a andare sulle Mini Minor, che non conobbero flessione; la A112 occupava invece un'altra fetta di preferenze.

Che cosa abbinarle? Beh, forse non c'entrerà un gran ché, a parte il periodo. Però è quel che m'è venuto a mente scrivendo questo post di riattivazione del continuum del TB; e, come si sa, sono aduso a seguire le mie impressioni. Torniamo quindi indietro al 1965, quando ancora la A112 era di là dal venire, e ai Ribelli che, presentati da Adriano Celentano, cantano La ragazza del Clan, sulla quale era stato imbastito un "mistero" che, anni dopo, sarebbe stato definito strategia di marketing. La ragazza del Clan, per la cronaca, si chiamava Milena Cantù, e non mancò di suscitare qualche piccola gelosia da parte della storica consorte celentanesca, la Claudia Mori. A112 o non A112, il vs. Treggista Preferito® non cessa di riportarvi indietro, sappiatelo.