lunedì 31 agosto 2009

Elbatregg' '09 (6): Via Tractoris




1. Preambolo (Prima si chiamava "Premessa", ma "Preambolo" è più figo).

Vale la pena salire su, da Marciana, al santuario della Madonna del Monte; e se lo fo io, che certo non posso essere definito un modello di virtù cristiane, vuol dire che il posto lo merita per davvero. Innanzitutto si trova a oltre 600 metri di altezza, e in una giornata caldissima d'agosto la cosa può non risultare indifferente; inoltre possiede un giardino con alti alberi ombrosi, panchine e tavoli e, soprattutto, una stupefacente esedra con delle meravigliose ortensie e un paio di fontane che buttano acqua di sorgente, fresca sul serio. Facendo pochi passi verso i sentieri che menano a Pomonte e Chiessi, si gode poi un panorama che definire mozzafiato è un eufemismo; insomma, per farla breve, è un luogo bellissimo.

C'è però un piccolo problema: si tratta, appunto, di un santuario. E di un santuario in piena regola, di quelli che ci fanno le processioni salmodianti il giorno dell'Assunta (che più comunemente si chiama Ferragosto). Di quelli, soprattutto, che per arrivarci non c'è una strada (e menomale, sennò addio pace, tranquillità e chiare, fresche e dolci acque), ma una Via Crucis. Autentica. Con tutte le quattordici stazioni, i tabernacoli e le immaginette. E siccome Nostro Signore lo mandarono al supplizio facendogli fare una salita della madonna (appunto), le Viae Crucis si regolano di conseguenza; e quella che mena alla Madonna del Monte è una pettata terrificante. Mezz'ora di supplizio pedestre, specie se -con mossa astuta- uno se la fa alle una del pomeriggio un sette d'agosto. Va bene, d'accordo, buona parte della salita è all'ombra di gran lecci e castagni secolari; ma ci sono dei pezzi in pieno sole che tagliano le gambe. Provare per credere. È per questo che, anche in pieno agosto, alla Madonna del Monte non c'è nessuno. Un posto del genere te lo devi guadagnare. Quand'ero ragazzo, ci salivo non dico di corsa ma speditamente. Stavolta sono arrivato in cima con la lingua avvolticciolata al collo, guardando la piasintëina, abituata alle camminate in montagna, che cercava di incoraggiarmi come poteva; e, lo debbo confessare, mi sono spesso lasciato andare a delle espressioni non propriamente consone alla santità del luogo (tipo: ma porco cane, 'un ti potevano mètte' 'n croce in discesa?).



2. La Treggia del Monte

Vi sarete forse chiesti il perché di questo lungo preambolo. Il fatto è che tutto m'aspettavo, una volta giunto in cima e ristoratomi seccando quasi una delle famose fontanelle che buttano acqua fresca, di trovare un'autentica Treggia. Proprio lassù, al termine della Via Crucis e d'un cammino silvestre rigorosamente proibito ad ogni sorta di automezzo (ci può andare, solo con piccole jeep, la Guardia Forestale). Una Treggia la cui funzione merita di essere raccontata brevemente. Trattandosi di un santuario con annessa chiesa votiva, il parroco di Marciana deve, almeno in certe occasioni, recarvisi a celebrare la messa; e, pover'uomo, certo non gli si può chiedere di fare la scalata ogni volta. Gli è stato quindi, da anni e anni, messo a disposizione un adeguato mezzo. E si vede che i parroci di Marciana "buttano bene" in quanto a tregge: chi aveva la vecchia 600, e chi invece ha il trattorino per evitare la Via Crucis. Oddio, magari ogni tanto (per la processione di Ferragosto, immagino) la salitella se la farà anche lui a fettoni: non mi riesce immaginare la Madonna preceduta da un trattore, anche se tutto è possibile. Nelle altre occasioni, il parroco monta sul trattorino, mette in moto e via; e così ecco la Via Tractoris. E se il trattorino era lassù, si vede che da qualche parte c'era anche il signor parroco, anche se non lo abbiamo visto; forse era a farsi una bella dormita nella foresteria.

Io, invece, una bella e saporita ronfata me la sono fatta stendendo un asciugamano di spugna su un tavolaccio di legno, con lo zaino come guanciale. Non senza lasciare, appiccicata in chiesa accanto agli ex-voto una sentitissima richiesta di grazia alla Madonna:


Elbatregg' '09 (5): Vimini







No, non abbiate paùva. Non è che dall'Isola d'Elba ci siamo tvasfeviti impvovvisamente a Vìmini, quella vicino a Viccione e a Milano Mavittima, e nemmeno vogliamo qui vicovdave un famoso album di Fabvizio de Andvé. Qui, anzi, siamo sempre all'Enfola. Sempre di più alla stupefacente Enfola ìstmica, con questo autentico capolavoro di vimini. Ancora il Treggia's Blog non aveva ospitato una Mini Minor (di quelle vere, non il suo insopportabile remake affighettato): e questo, come si suol dire, è un vero e proprio esordio col botto.

Per l'amante delle Tregge, trovarsi all'improvviso di fronte ad una cosa del genere è come, per un filatelico, scorgere un Gronchi Rosa sul marciapiede; un tuffo al cuore. Da qui le ben sei foto che accompagnano questo post. Questo non è solo un capolavoro: è un pezzo unico che il destino ha voluto mettermi di fronte in un torrido giorno d'agosto sull'Isola. Mini Minor "dunebuggata", sedili e finiture esterne interamente in autentici vimini da paniere, faro sul tetto, i cerchioni verdi e il quadrifoglio sul cofano. Chiunque abbia scovato e restaurato una vettura del genere dovrebbe essere insignito seduta stante del Premio Nobel per la Treggia. Non c'è? Sarebbe il caso di istituirlo. Certo avrebbe più credibilità del premio Nobel per la pace dato a Kissinger.

E così, io e la piasintëina ce ne siamo stati non so quanto a rimiràr, con la malcelata voglia di montarci sopra, avviare il motore in qualche modo e andarcene a scorrazzare come diciottenni. Non tema il proprietario, che peraltro m'hanno detto essere fiorentino nonostante la targa milanese (e così anche il topic del blog è soddisfatto): non lo avremmo mai fatto. Soltanto una chiusura d'occhi nel sole, un sogno ad occhi aperti ed anche qualche stilla di sana invidia, che in certi casi non fa neppure male. Siamo fatti così noi cercatori di Tregge: dei sentimentali allo stato brado. Perdipiù, pregasi soffermarsi anche sul paesaggio circostante. Certo, anche trovare una vettura simile in una strada cittadina qualunque farebbe il suo porcaccio di effetto, ma vedersela all'Enfola, sull'istmo, è un'altra cosa. Lunga vita alla Mini di Vimini, a chi l'ha rimessa a posto e a chi, accidentallùi, ci si siede dentro e ci va in giro. Ma sono degli accidenti del tutto affettuosi e con il sottofondo d'un applauso. Questa non è una macchina, è un'epoca intera. È l'isola d'Elba, ma anche l'isola di Wight. O forse, chissà, l'isola che non c'è.

Elbatregg' '09 (4): Enfola Treggia's Festival



L'istmo di cui si parlava nel post precedente ha un nome: si chiama, infatti, Ènfola. In realtà, l'Enfola, o Capo Enfola, sarebbe il promontorio tenuto attaccato al resto dell'Isola dal sottilissimo & plurispiaggiato filo di terra dove le tregge di mezzo mondo sembrano essersi date convegno; e che sia un luogo assai particolare è testimoniato dall'origine stessa del suo nome.

Il filo di terra, o istmo che dir si voglia, non ci dev'essere sempre stato. Un tempo, quello che ora è il promontorio era una vera e propria isola, e così veniva chiamata sulle vecchie carte cinquecentesche in latino: Insula. Solo che, nella grafia manuale dell'epoca, la "s" era praticamente identica alla "f"; e fu così che tutti, leggendo il nome nelle carte, cominciarono a chiamarla Infula. Con il tempo e con le normali leggi fonetiche, che agiscono sempre anche se non ce ne rendiamo conto, da Infula si ebbe Ènfola. Un nome, insomma, derivato da uno sbaglio di lettura su una carta. Quanto al fatto che un'isola venga chiamata semplicemente "Isola" non è raro: questa, ad esempio, e con altre leggi fonetiche, è l'origine del nome di Ischia (con la seguente trafila: insula > *insla > *isla > *istla -con la "dentale epentetica"- > *iscla per dissimilazione e infine Ischia con la normale palatalizzazione per cui da clamare si ha chiamare). All'Elba, tra l'altro, si ha anche uno Scoglio d'Istia che mostra il medesimo passaggio dell'isola campana. Ah, scusate. Pardon. E' un blog dove si parla di vecchie macchine, questo. Però bisogna che abbiate anche presente che il suo titolare è un tipo un po' strano.

Insomma, ok, vi leggo nel pensiero. Basta con le Mehari! E s'è capito che ce n'erano dappertutto! E, infatti, con questo post le Mehari vanno a nanna. Però almeno l'ultima, a convegno galante con un Cinquino ugualmente candido & virginale (e persino targato Livorno: cosa rarissima, in agosto, trovare all'Elba una macchina con la targa della provincia di appartenenza...), la voglio far vedere. Poi ne ho trovate di tutti i colori: biancorosse che sembravano il vecchio Lanerossi Vicenza, color vino stile cappottone di Fantozzi, verde scuro da matitacce nell'astuccio delle elementari, e una persino targata Isernia. Ma, almeno per ora, può bastare.

Elbatregg' '09 (3): Il tempo delle mele sull'istmo





Non ci credevate, vero, che all'Elba era in corso uno sbarco di Mehari? Beh, eccovi serviti. In un posto discretamente lontano da quello del post precedente, addirittura parcheggiata su un autentico istmo con due spiaggette ai lati, una a destra e una a sinistra, oplà. Ché anche l'istmo è una di quelle cose come l'Araba Fenice (che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa), lo si trova implacabilmente nelle parole crociate assieme all'Aar e all'inia, e si pensa che è una delle parole più impronunciabili della lingua italiana (si dice ìsmo, itsmo eccetera, e tutto grazie alla pigrizia di non aver voluto meglio adattare il greco ἰσθμός). Orbene, di questo istmo elbano ne avremo, e a lungo, a riparlare; gli istmi sono posti strani e attirano le tregge.

Insomma, dall'arancione stile Orangina (l'avete mai assaggiata quella bevanda gassata francese, sane sorsate di vernice al minio diluita in acqua, ringraziando che non fosse ragia?), eccoci passati al tempo delle mele, che di Francia sanno pur sempre. Mela verde, Sophie Marceau a quindicianni o giù di lì, le corse sulla spiaggia, il chiardiluna e poi daje de tacco e daje de punta. Come se non bastasse, questo esemplare di Mehari è targato "Como 70" (no, no, non è un taxi!) e ha davvero lo stesso colore di quello sciampo terrificante "alle mele verdi" che imperversava in quegli anni ammorbando le docce con il suo odorino di mele ottenuto con una sapiente miscela di tetrapalinuro di cherosene e metaspompato di 2,5-β-pallepiene.

Tra le foto ce n'è una anche dell'interno, che rende debita giustizia alle finissime rifiniture della vettura, alla strumentazione all'avanguardia (c'era persino il contachilometri!) ed alla fenomenale innovazione del rotadiscortabag: se battevi, prima di carbonizzarti in santa pace eri comunque protetto dagli urti laterali (ma solo a destra); e se per caso sopravvivevi, ti restava comunque il battistrada impresso eternamente sulla pelle viva. Marchiato a vita.

Elbatregg' '09 (2): Mehari all'invasione!





Premessa. Mi devo scusare con gli impareggiabili, innumerevoli & insondabili frequentatori del Treggia's Blog per essere nuovamente scomparso per una settimanetta; il fatto è che non c'è nemmeno un motivo particolare. O forse ce ne sono tanti, chissà. È il bello delle passioni, quelle vere: non hanno alcuna regolarità, non sono "testate giornalistiche". A volte sembrano andare in letargo, per un certo periodo; poi, un bel giorno, rieccole. Del resto, la passione per le vecchie automobili è stata, dentro di me, in letargo per tutta una vita finché, il 1° giugno 2009...ma come premessa sta diventando già troppo lunga. Dunque, dicevamo, in agosto all'Isola d'Elba...

...si è verificata un'autentica invasione di Mehari. Ma no, non temete, l'isola non è stata invasa da orde di cammellieri, bensì di quelle curiose spiaggine che la Citroën tirò fuori alcuni anni fa, in pieni anni '70. Anzi, per essere precisi, nel 1968. Data fatidica, insomma.

Era, in pratica, una 2CV. Una Dedeuche da spiaggia nell'epoca dei falò, del sesso libero e dell'autostop. Del tutto spartana come sua zia, raggiungeva a malapena i 100 kmh e, soprattutto, era realizzata interamente in acrilonitrile butadiene stirene, più noto come ABS. In pratica: era di plastica. Come i modellini Norev, peraltro francesi pure loro. Ti veniva la voglia, quando ne vedevi una, di mettertici a giocare facendo brum brum; voglia che, lo confesso, mi piglia ancora. Specialmente quando mi ritrovo, in un agosto sull'Isola, a vederne dovunque. Come se tutte le Mehari superstiti si fossero date appuntamento. A proposito: dello stesso materiale della Mehari sembra siano fatte anche le mazze da golf e i flauti dolci, vale a dire i biechi "pifferi" che gli insegnanti di musica delle scuole medie facevano comprare ai ragazzi e che, invariabilmente, finivano a impolverarsi nelle cantine. Non solo: dello stesso ABS sono generalmente fatti anche i mattoncini del Lego. E, in effetti, le macchinine fatte col Lego non sono poi così dissimili dalla Mehari...

Una macchinina nata, quindi, per essere simpatica. E simpatica lo era e lo è tuttora, specie quando se ne vede una di quel bel colore da aranciata chimica, 99,5% di additivi e 0,5% di succo finto; riporta alla mente ragazze che montano sopra, chitarre, qualche spruzzata di revolución e tant'altre cose che lasciamo stare. Certo, aveva anche qualche piccolo inconveniente. Proprio all'Elba, tanti anni fa, ne vidi una verso Fetovaia. Completamente bruciata. Erano rimaste solo le intelaiature di metallo, mentre la plastichina s'era totalmente dissolta (con la speranza, ovviamente, che non avesse dissolto anche i passeggeri). Pesava soltanto 475 kg, e quando ne fecero la versione 4x4 ci potevi salire anche sulle mulattiere del Grossglöckner. Se però volavi di sotto e pigliava fuoco, adieu mon gars.

Per la sua stessa natura, nelle città se ne vedono pochissime oramai. I proprietari le ritirano fuori per le vacanze, e quest'anno l'Elba dev'essere stata una meta prediletta dai meharisti di tutta Italia; ma quando ho scattato questa prima foto, sulla piazzetta del Poggio, ancora non lo sapevo. Nei giorni successivi è stato poi un delirio di Mehari, tanto che a un certo punto ho deciso di non fotografarle più per non far diventare questo il Mehareggia Blog. Ce n'erano, peraltro, di interessanti; ma un po' di metodo, poffarbacco, ci vuole.

Nota. Curioso destino ebbe in Francia questa macchinetta da vita "on the road" (on the road nei paesi caldi, va da sé: in Norvegia sembra che non ne abbiano vendute molte). Per le sue caratteristiche fu infatti adottata dall'esercito, e ne fu realizzata una versione "militare" che fu detta, appunto, Méhari Armée. Il che si potrebbe intendere, in francese, sia come "Mehari Esercito", sia come "Mehari Armata". Non cambia la sostanza, ovviamente. Proprio quando te la vedevi con le sue suggestioni antimilitariste da vita libera e senza regole, pàff, ecco i militari che te la prendono.

mercoledì 19 agosto 2009

Elbatregg' '09 (1): Si comincia dal Poggio


Ed eccoci finalmente, il 5 agosto scorso, all'Isola d'Elba per le immeritatissime ferie. Nella foto si vede un suggestivo scorcio della località collinare del Poggio (e sfido io che non sia collinare, con quel nome lì!), presso Marciana: si noti, come segno di antiche e benefiche sbronze, l'obelisco sormontato da un grappolo d'uva. Assisi in santa pace nella piazzetta del paese, dove giorni dopo si sarebbe svolto un memorial tributo a Lucio Battisti (in diretta concorrenza con il De André Day di San Piero: ipotizzo a questo punto, nei prossimi anni, una Journée Rino Gaëtan a Portoferraio, un Pierangelo Bertölen-Tag a Marciana Marina e, perché no, una Noche de Iván Gracianos a Marina di Campo), ce ne stavamo bel belli quando ci compariva davanti l'autovettura che sarà l'oggetto del prossimo post, nonché l'inizio di una lunga e proficua serie di tregge elbane in versione vacanziera.

martedì 18 agosto 2009

FIA0 !



Il 17 luglio 1979 è una data storica per l'automobilismo fiorentino: in quel giorno, infatti, fu rilasciata la milionesima targa "FI", la mitica "FI A00000", insomma. Non so nemmeno dire quanto avevo aspettato quel fatidico giorno: da piccolo provavo un'invidia terrificante per Milano, Roma e Torino che già avevano la lettera da una vita, e quando poi toccò anche a Napoli non stavo più nella pelle. Finalmente toccò anche a noi, con la non indifferente goduria di battere alla grande Bologna (la "BO A00000" si ebbe diverso tempo dopo; ma c'è da dire che Firenze poteva all'epoca contare ancora su Prato, che nel 1993 si sarebbe staccata facendo provincia a sé). Non parliamo poi di città ben più grandi di Firenze, come Genova o Palermo: furono battute persino da Brescia. Pfui.

La lotta per le targhe. Ora più nessuno la può capire. Per questo mi ero dato anema e core alle targhe francesi, con le loro trois lettres che sancivano l'élite targajola. Ora pure loro si sono dati alle combinazioni alfanumeriche, addirittura copiando pedissequamente quelle italiane. Vergogna. Ma quale grandeur. Non c'è più religione. E, allora, quando vedo una superstite targa FI A0, mi vengono i lucciconi. Ho scordato persino le antiche rivalità cittadine e mi commuovo vedendo anche una BO A0 o una GE A0. Persino una delle tanto odiate, antiche targhe milanesi che mi provocavano tanta invidia. Confesso che qui, in fondo, la pur interessante e treggisticamente perfetta 126 passa qui in secondo piano. Un supporto per la targa, pur con tutto il dovuto rispetto.



Cinquino rosso trionferà





In attesa di un Cinquino rosso e nero che sancisca finalmente il trionfo dell'Anarchia (anche se, cospettone, ora come ora è assai più probabile che si tratti di un tifoso del Milan), debbo confessare che verso le cinquecento rosse ho una passione smodata. Figurarsi se, nella stessa strada, ne trovo ben due parcheggiate a pochi metri di distanza; e dico parcheggiate perché no, queste non pajono affatto abbandonate. Fortunatamente. Un delitto contro l'umanità è stato evitato. Sono sempre lì, infocate, pronte al ditone che aziona la levetta di avvio, pronte alla regolare doppietta per scalare di marcia; bei tempi quando le marce non erano sincronizzate. Quando, se volevi la patente, dovevi dimostrare di saper fare quella manovrina malefica, quella che quando mio padre me la insegnava mi berciava seuntullasafàre, untussaguidàre! Il problema, e grosso, gli era che, per fare la doppietta, bisogna lavorare bene e rapidamente coi pedali; cosa che i miei piedini non propriamente da Cenerentola mi ostacolavano abbastanza, provocando delle grattate terrificanti che si sentivano da Bologna.

Il cinquino rosso. Quello bardato con l'altoparlante che annunciava ai compagni la manifestazione, procedendo a quindici all'ora. Quello che si può ben passare sopra alla targa di Pisa, vedendone uno ancora. Trionfa sempre sul ciarpame da fighetti equipaggiato persino con l'aipòdde. Trionfa e trionferà. È ora, è ora, è ora di cambiare! Cinquino rosso e po-po-lare!

Ai tempi dell'Alfasud



Nonostante la targa labronica siamo ancora, qui, al 3 agosto scorso in quella certa viuzza fiorentina dove, una dietro l'altra, giacevano (e probabilmente giacciono ancora) numerose & assai impolverate tregge abbandonate. L'autovettura qui riprodotta faceva parte del celebre progetto Alfasud, quando l'Alfa Romeo di Arese impiantò degli stabilimenti in quel di Pomigliano d'Arco per la produzione di un nuovo modello (per la cui interessante storia si consiglia appunto di cliccare sul link). In realtà, a Pomigliano l'Alfa Romeo già era presente da prima della II guerra mondiale, ed è tuttora uno dei principali poli industriali e operai del mezzogiorno; ci piace molto ricordarlo anche per il gruppo musicale e teatrale 'E Zézi (cui ha dato una mano anche Erri de Luca, e dico poco).

L'Alfasud, più che un'automobile, fu un vero e proprio progetto sociale. Non bisogna infatti dimenticare che, all'epoca dell'inizio della produzione (1972), l'Alfa Romeo era di proprietà pubblica. Sembra strano parlarne ora, in questi pessimi tempi di "privato è bello"; ma c'è stata un'epoca in cui le Alfa Romeo erano prodotte dallo Stato. Nel 1976 l'Alfasud di Pomigliano decise di lanciare anche un modello coupé, disegnato nientemeno che da Giorgetto Giugiaro (uno che deve molto alle "g": pensate se si fosse chiamato Piorpetto Piupiaro o Fiorfietto Fiufiaro, non sarebbe stata la stessa cosa): nacque così l'Alfasud Sprint, detta poi semplicemente Alfasprint. La produzione andò avanti fino al 1988, addirittura oltre quello dell'Alfasud originaria (che defunse nel 1984 per lasciare il posto all'Alfa 33, la famosa vettura delle gomme rubate di Totò Schillaci). Eccone qui un superstite modello in un abbandono sotto il sole d'agosto.

Peccato, perché questa era ancora un'Alfa Romeo. Con tutti i suoi difetti, ma la era. Ai tempi dell'Alfasud, quando questo era ancora un Paese. Con tutti i suoi difetti, ma lo era.

Arieccoci


La foto che qui vedete è stata scattata nella località elbana di Forno, al tramonto. Insomma, come chi segue questo blog avrà sicuramente capito, il vostro Treggista preferito si è passato qualche giorno di ferie nella "sua" isola; pochi, ohimé, ma pur sempre buoni. Anche e soprattutto dal punto di vista squisitamente treggistico perché, come sempre, lo scoglio si è rivelato un'autentica ed inesauribile miniera di automezzi del tutto particolari. Ma bisogna andare per ordine: ci eravamo lasciati al 3 di agosto con alcuni capolavori reperiti in una via fiorentina, e prima saranno presentati i rimanenti, seguendo l'ordine cronologico. Poi si passerà all'Elba, che quest'agosto, va detto subito, si è rivelata particolarmente prodiga di motoveicoli. Non è una cosa di cui stupirsi: nelle città, purtroppo, la mototreggia è in via di estinzione grazie a tutta una serie di concause su cui forse è meglio non soffermarsi. Chi ha una moto d'epoca la tira invece fuori, assai spesso, per le ferie: ed ecco che, in agosto, le località di mare si riempiono di tali bellezze che non ho mancato certo di documentare, con almeno un paio di "pezzi da 90". Al ritorno, eccomi qui. Dal Forno della fotografia sono passato al forno, in senso letterale, di Firenze. Non che all'Elba facesse freddo; ma qui, in questi giorni, le tregge è meglio fotografarle e basta, senza toccarle. Si rischierebbe seriamente di ustionarsi.

Avvertenza Periodica (4)

In questo blog dedicato (con passione e un bel po' d'ironia) alle vecchie macchine che si vedono ancora in giro per Firenze e dintorni, le "protagoniste" sono presentate con la relativa targa, in bella mostra. La targa fa parte integrante e insostituibile della venerabile automobile, e come tale non può essere tralasciata. Ciononostante, sono assolutamente conscio che, per le (in gran parte) stupidissime "normative sulla privacy", ciò potrebbe costituire una violazione, tanto più che le foto sono state da me scattate in giro senza poter minimamente chiedere l'autorizzazione ai proprietari dei veicoli fotografati (e come potrei fare altrimenti, visto che risalire al proprietario da una targa dovrebbe essere prerogativa esclusiva del PRA e delle forze pubbliche?). Ciononostante, se qualche proprietario dovesse riconoscere la propria vettura e non desiderasse che la targa sia visualizzata, è pregato di comunicarmelo privatamente a questo indirizzo di posta elettronica: k.riccardo@gmail.com. La targa verrà quindi immediatamente oscurata. Chiunque tenga però presente che scopo di questo blog è un sincero omaggio a quelle macchine, e in definitiva anche ai proprietari stessi che non hanno voluto privarsene; cosa per la quale hanno tutta la mia sincera ammirazione e partecipazione. Nient'altro. Le foto sono scattate in modo da non rendere facilmente riconoscibile la zona della città; quando lo fosse, è perché non è stato possibile fare altrimenti.

Questo post verrà ripetuto periodicamente.

lunedì 3 agosto 2009

Gold & Dust



Un Treggia Tour degno di questo nome ha le sue regole ferree e, naturalmente, i suoi trucchi. Certo, l'avvistamento delle tregge è in gran parte regolato dal caso e dalla fortuna; nonostante ciò, il Treggista chevronné (che in francesce vorrebbe dire "esperto, scafato" ma che, appena tornato dalla Francia e parlando a volte un bizzarro miscuglio, traducevo come capronato) ha i suoi sistemini & stratagemmi che gli alleviano senz'altro la fatica. Uno di questi è concentrarsi sui cosiddetti Accumuli: stradine laterali con parcheggio libero, parcheggi di periferia, isolotti spartitraffico e così via. Non lo sapete, ma almeno un 35/40% delle tregge presenti in questo blog sono state reperite proprio in questi Accumuli, dove il proprietario della treggia la può lasciare in santa pace (se non ha un garage) oppure, ohimè, può abbandonarla.

Durante il TT di domenica scorsa mi sono ritrovato proprio in uno di questi Accumuli: non solo queste foto, ma anche quelle che seguiranno provengono dallo stesso luogo. L'inizio di un'amena strada di collina, restando ovviamente nel vago. E qui abbiamo proprio un tipico e mesto esempio di treggione abbandonato.

Non ho una gran passione per le Mercedes, debbo dire; le trovo automobili, tuttora, vagamente naziste e neppure tanto vagamente. Fanno eccezione quelle vecchie, malandate, di stile libanese o balcanico; e qui ne abbiamo una, assolutamente perfetta (è una W114). Quel suo incredibile color oro riporta ad un proprietario eclettico e forse un po' gitano: certamente un direttore di banca o o comunque un ricco borghese non avrebbero mai scelto una tinta del genere. Ricchi borghesi che, magari, una vettura come questa (blu scura o grigia, ovviamente) l'avrebbero coccolata, ripulita, lustrata e debitamente iscritta al registro delle auto d'epoca; questa, invece, se ne sta regalmente a disfarsi e a captare quintali di polvere. Oro e polvere.

Quale che sia la mia opinione sulle Mercedes, trovo assolutamente ingiusto che una macchina come questa vada incontro ad un destino così triste. Prima o poi verrà rimossa e avviata allo sfascio; il mio vuole essere un ultimo omaggio. Un omaggio che purtroppo ho leggermente toppato, specie nella foto del retro (che è assolutamente sfocata); rimedierò tornando sul posto e prendendone una fatta come si deve.

Domenica d'agosto...




Domenica d'agosto, che caldo fa..., poetava or non è guari il celebre vate Roberto de' Satti, più noto come Bobby Solo; je rispose un altro vate conclamato, Francesco Guccini da Modena, con altri immortali versi: Giorno d'estate, giorno fatto di niente / Vuote di gente son le strade in città.. Ed io, che vate non sono (né ambisco ad esserlo), rispondo loro che, effettivamente, è una domenica d'agosto, fa caldo, che le strade in città son vuote di gente, ma che sono anche piene di tregge. Lasciate ad arrostire sotto il sole, compagne o complici d'un giro senza meta, canticchiando col gomito fuori dal finestrino dopo un bel pranzo offertomi assai gentilmente (cui ho peraltro contribuito con una bottiglia di Santa Cristina del 1984) e deciso a godermela in barba ad ogni cosa.

Nella strada, naturalmente deserta e rovente, dove ho fotografato questo furgone da lavoro che si gode pure lui il riposo, sembrava che ci fosse la miniera dei Ford Transit. Non soltanto un camper già presente nel blog (ché uno dei più curiosi "effetti collaterali" è che gli automezzi che già ne fanno parte li rivedo di continuo, a volte persino in strade ben lontane da quelle della foto...), ma anche altri. Ho deciso per il momento di fare una scelta, altrimenti questa pagina sarebbe diventata il monumento ai Ford Transit; ho scelto il più vecchio. Ma non temano gli altri: prima o poi anche loro saranno debitamente inseriti. Al Treggista, e particolarmente al Treggista agostano, non sfugge nulla. Registra, cataloga l'avvistamento sul quadernetto e non dimentica, preparandosi alle immeritate ferie Kodak alla mano.

Sui vecchi Ford Transit c'è peraltro da segnalare una caratteristica assai distintiva: non ce n'è uno la cui scritta "FORD" sulla calandra anteriore sia intera. Non so se è una vendetta dell'Onnipotente (Almighty, All-Encompassing ecc.) contro il fordismo e l'invenzione dell'operaio-macchina e delle catene di montaggio, però è sempre così: come se una mano ignota volesse punire quel nome impedendogli di apparire per intero sui Transit. Questo, come si può vedere, è un FOD. Ma tutte le combinazioni sono possibili sui Transit aviti: ORD, FOR, FRD. A volte se ne vanno due lettere e si hanno FD, OR, RD... e a volte se ne vanno tre, e nei casi più eclatanti tutta quanta la scritta. Non si sfugge alla manona del Padreterno!

domenica 2 agosto 2009

L'Om selvatico




Nella tradizione popolare, è nota la figura dell'Omo selvatico (o salvatico): l'uomo (ovviamente assai barbuto, nella sua comune raffigurazione) che vive nei boschi, a contatto con la natura, e che -una volta a contatto con la "gente civile"- porta loro una semplice e salutare saggezza che si esplica soprattutto nella sua decisione di ritornarsene poco dopo nelle sue foreste. Pur essendo appassionato di tutto ciò che riguarda la tradizione popolare e rurale, sarà un po' difficile che ne trovi vestigia durante un Treggia tour, anche se certi automezzi, volendo, potrebbero rientrarci; da qui la mia estrema attenzione ai giri nelle campagne e agli automezzi da lavoro. A pensarci bene, lo stesso nome di treggia attribuito agli automezzi è di antica derivazione rurale, come già abbondantemente raccontato.

Fatto sta che, in assenza dell'Omo selvatico (i cui ultimi echi possono comunque cogliersi nella figura e nell'aspetto del cantante Piero Pelù), qui ci si dovrà accontentare dell'Om selvatico, intendendo con questo i benemeriti e storici camion OM, ovvero le Officine Meccaniche Fabbrica Bresciana Automobili. In attesa di trovare in giro qualche superstite Tigrotto o Lupetto (un Lupetto lo avevo reperito parcheggiato poco tempo fa, ma ancora, ahimé, il blog non esisteva...), accontentiamoci di questo camion di "ultima generazione", vale a dire quella poco precedente allo scioglimento del marchio nella holding Iveco (che vorrebbe dire Industrial VEhicles COrporation, dato che chiamarla Azienda Veicoli Industriali non sarebbe stato abbastanza figo). Siamo circa nel 1976/77 e questa è l'ultima cosa che reca il marchio OM, insomma; e la "I" della Iveco è comunque già presente. Un marchio, OM, che ha fatto la storia del veicolo da lavoro, tanto da divenire il "camion italiano" per eccellenza. Trovarne ancora qualcuno in giro, sì, riporta davvero alla tradizione popolare.

sabato 1 agosto 2009

L'Appia bianca del Destino






A volte il destino manda dei segnali.

In questi ultimi giorni il Treggia's Blog non sarebbe potuto andare avanti per una curiosissima causa di forza maggiore: mi ero dimenticato di pagare un paio di bollette al sig. Fastweb e costui, leggermente contrariato, mi ha sospeso il servizio. Indi per cui, ritrovandomi privo di Internet, mi son dovuto all'improvviso alleggerire di qualche centinaio di euri per saldare le fatture arretrate; ed il servizio mi è stato prontamente ripristinato.

Nel frattempo, che fare? Arrangiarsi, ovviamente. Dovevo consegnare dei lavori urgenti e, per eseguirli, mi è necessario stare praticamente fisso su un sito, tale IATE, che se lo sai maneggiare ti dice, ad esempio, come si traduce bascula del pignone scorrevole in svedese (tirettfjäder, per la cronaca). In attesa dei comodi del sig. Fastweb, mi sono quindi dovuto trasferire armi e bagagli a casa di mia madre e ricorrere al caro, vecchio e micidiale collegamento a 56k, quello che fra una pagina e l'altra puoi farti tranquillamente un caffeino o darti una spuntatina alle unghie de' piedi. Vabbè. Mea culpa. Dovevo stare attento alle bollette, e mal me n'è incolto.

Ma si sa che i dèmoni sono i dèmoni: pur nella complicazione del frangente, recandomi da mia madre (che abita dall'altra parte della città) m'ero portato dietro la Kodak. E ripensavo ad una vecchia macchina che, fin da ragazzino, avevo sempre visto girare per il quartiere dove sono nato, oppure parcheggiata: una Lancia Appia di II Serie di cui persino mi ricordavo le prime cifre della targa, da quante volte l'avevo vista: FI 17...

Le davo la caccia praticamente da quando ho aperto il blog (che proprio oggi compie 2 mesi): ma si sa bene come vanno sempre le cose. Quando non ci pensi, una data cosa (ad esempio l'Appia in questione) ti capita sotto gli occhi in ogni momento; quando invece la cerchi, puff, scompare. Mai più vista nella traversa dove una volta la vedevo parcheggiata più o meno fissa. Svanita dalla circolazione. Pazienza. Son vecchie automobili che, poverette, ad un certo punto possono anche decidere d'andare a babboriveggi; oppure che il proprietario segrega in un garage per proteggerle dalle intemperie. Insomma, nulla da fare. Mi sono seppellito in casa di mia madre con le mie bascule dal pignone scorrevole e non ci ho pensato più.

Ci ho fatto le 3 di notte, per un lavoro che con un collegamento da cristiani non mi avrebbe richiesto più di due o tre ore. A quell'ora silente ho mandato l'agognata mail al datore di lavoro (appena in tempo utile prima che mi sguinzagliasse dietro il SETR -Servizio Eliminazione Traduttori Ritardatari), ho chiuso le 127 serrature della porta di mia madre e, nel buio profondo, mi sono riavviato verso casa canticchiando una delle mie canzoni che non saranno mai gli ultimi successi.

All'improvviso, il flash. La famosa coda dell'occhio. Proprio nella sua traversa. Lei. Un'inchiodata nella notte, e una conversione a U che ad ore normali mi sarebbe costata 10 punti della patente e forse anche qualche punto di sutura. Al termine di quella difficile giornata, il destino mi aveva voluto premiare, rimettendomi davanti l'Appia bianca.

Se un ignaro viandante (ignaro come quello delle poesie di Bondi rivisitate da ElleKappa) fosse passato in quel momento, avrebbe visto una bizzarra scena: una macchina ferma per strada con una portiera aperta, e un tizio sciamannato in pantaloncini e con una mirabile fascia fucsia a reggergli i capelli che fotografava una vecchia macchina saltellando nelle tenebre.