venerdì 30 ottobre 2009

La Mantovana e l'Agedabia, ovvero Storia di una Vasca da Bagno e d'altre tregge






Finalmente ci siamo: è arrivato il gran giorno della prima Prinz su questo blog. Parcheggiata in un'antichissima strada della periferia fiorentina, tra "Corti" dal nome fantasmagorico (tipo: Corte di Torcifera), dove un oste del posto sostiene -con qualche ragione- che sia ambientato il "Pinocchio" di Collodi. Vòlse lo destino che non recasse la targa cittadina, bensì quella di remote plaghe della Val Padana; ma non dubito minimamente che, tra le nebbie e gli umidori di quella parte della piana fiorentina, vi si sia ambientata benissimo. Talmente bene da essere ancora là, imperterrita, blé nel tramonto. Lontano da certi finti "amarcord" annisettantaioli stile Fabio "Leccalecca" Fazio, voglio qui raccontarvi la Prinz com'era. Una Prinz che fu di proprietà di mia zia Egle, all'Isola d'Elba. Una storia di tregge e di una giornata difficilmente scordabile, con il quale inauguro anche la nuova categoria delle "Storie di Tregge".


Era, già allora nel '75, talmente decrepita e malmessa che mia zia la chiamava L'Agedabia, che era sì il nome di una città conquistata dagl'italiani durante la guerra di Libia del 1911, ma, più che altro, quello di una vecchia somara di un contadino là vicino agli Alzi. Una Prinz beige scrostallizzata, che quando si aprivano e chiudevano le portiere si sentivano dei scryéæüwchhh da far andar via di cervello; per entrarci dentro, però, bisognava subire quelle sinfonie, e senza fiatare. Mia zia non voleva guidare che quella, che era peraltro stata la sua prima macchina: aveva preso la patente a cinquant'anni sonati perché lavorava alle scuole di San Piero e si era rotta i coglioni delle corriere scassate che c'erano allora all'Elba. Mi scusassero se in questo post userò a volte un linguaggio un po' scurrile: il fatto è che mia zia Egle era una di quelle tempre di contadine che da una parte veneravano devotamente la Madonna, Sant'Antonio, San Remigio, San Ponziano da Gaeta, Santa Rita da Cascia, Santa Veneranda del Quadraro e tutto il martirologio (esclusi, naturalmente, Gesù cristo e Dio, esseri troppo distanti per meritare attenzione) e, dall'altro, tiravano quotidianamente salve di fantasiosissime bestemmie, riferendosi poi al prossimo che popolava l'universo mondo con espressioni in cui la merda e ogni altro tipo di escremento umano e animale la faceva da padrone. Indimenticabile zia Egle, che ora viaggia nelle putride, carogne, subdole, disumane plaghe dell'Alzheimer. Il morbo di Alzheimer è la prova decisiva per l'inesistenza di Dio.


Anche nell'Agedabia aveva sistemato ogni sorta di santino, immaginetta sacra, cuoricino trafitto e via discorrendo; l'adoperava al massimo fino a San Piero, emetteva dal tubo di scarico una macedonia fatta di poltiglia idrocarburica e topi morti, e non si fermava mai. Un giorno di gennaio successe che suo genero, che invece era un'appassionato di auto sportive e aveva una rombante R5 Alpine Renault, una bomba che riusciva a fare ben diciotto centimetri con un litro, dovesse portar la sua macchina dal meccanico e che dovesse andare a Firenze. Era un lunedì: lui lavorava per tutta la settimana qui in città, e poi tornava all'Elba il venerdì sera. Destino volle che proprio quel lunedì io e mia madre fossimo all'Elba per non so quale motivo: io avevo 11 anni e mezzo, avevo saltato un giorno di scuola, e Franco (così si chiama) ci doveva accompagnare. Il problema è che l'Alpine Renault era indisponibile; la macchina di sua moglie serviva, naturalmente, a sua moglie, e allora si dovette prendere la Prinz della zia Egle, l'Agedabia.


S'andò a Portoferraio a prendere il traghetto; si fece la traversata in un giorno di sole, ma assolutamente gelido; s'arrivò vicino a Cecina. Giunta a Cecina dopo aver percorso il numero di chilometri massimo della sua vita tutto in una volta, l'Agedabia dette forfait. Emise uno strano lamento sulla vecchia Aurelia, poco passata la California, e si fermò. Defunta. Nulla da fare. Mio cugino, che doveva entrare a lavorare nel pomeriggio, cominciò a tempestare il padreterno d'una tal quantità di epiteti, che mi sembrò ad un certo punto d'intravvedere una manona nel cielo che faceva un gesto come dire: Oh, stai calmino, 'un l'ho mica fabbricata io la Prinz. Il fatto è che, essendo nel 1975, i cellulari erano ancora, ed esclusivamente, degli automezzi della Polizia riservati ad un tristo compito; per andare a chiedere soccorso, mio cugino dovette farsi due chilometri a piedi per trovare una cabina del telefono. E siccome non era socio ACI e aveva una certa premura, ed il trenaccio locale che passava nelle vicinanze ci avrebbe fatti arrivare a Firenze all'ora de' lupi mannari, non trovò di meglio che chiamare mio padre, che ci venisse a prendere tutti quanti. Mio padre stava per uscire dall'ufficio.


Ci son certe giornate dove, sicuramente, sarebbe meglio starsene a letto tutti quanti; disgraziatamente, era una di quelle. Uscendo per venirci a prendere, mio padre si recò nel parcheggio dell'ufficio dove teneva la sua novissima Fiat 128 Special verde acqua (targa: FI 750688). Non so esattamente che cosa accadde, e non lo sapeva nemmeno mio padre: però si accorse, con orrore, che si era dimenticato le chiavi infilate nel quadro, e che, chiudendo la portiera la mattina, doveva avergli tirato una tale botta da aver fatto scattare il meccanismo di chiusura. Insomma: chiavi dentro e macchina chiusa, mentre lontano lontano sua moglie, suo figlio e un altro parente lo stavano aspettando come ultima ratio. Fu allora che mio padre fu costretto a prendere un'autentica schwer gefasste Entschluss: si fece dare dei cenci, si fasciò ben bene la mano, e tirò un cazzotto spaventoso al vetro laterale, spaccandolo con il rischio di farsi, diciamo, non benissimo. Al che partì per Cecina con il vetro rotto, con una temperatura non lontana dallo zero e intabarrato nello spigato col bavero alzato e una sciarpa viola di maglia.


Nel frattempo, a Cecina, io, mia madre e mio cugino stavamo aspettando in mezzo di strada. Calcolando il tempo normale di arrivo, dovevamo restar là circa un paio d'ore; tempo che vide una trasformazione di mio cugino da tranquilla persona in berserk. Cominciò prima con il rivolgere alla Prinz epiteti a dir poco irriguardosi (brutta schifezza di merda....! Ma vaffanculo a te e a chi t'ha fatto! Ammasso di letame 'olle gomme...!); poi, via via che le lancette dell'orologio scorrevano, si trovò obbligato a rifarsi due chilometri a piedi per avvertire l'ufficio. Una volta tornato, passò dalle parole ai fatti: cominciò a prendere a calci la povera Agedabia, prima sulle ruote, e poi sul cofano posteriore (ma la macchina era in condizioni tali, che forse da quei calci risultò qualche miglioria alla carrozzeria). Passavano dei rari automobilisti, preoccupatissimi, che -se fossero esistiti i telefonini- non avrebbero mancato di chiamare la neuro. Tra una pedata e l'altra, mio cugino era passato a maledire e investire di improperi prima la NSU in generale (che allora, oltre alla Prinz, faceva soltanto la R080, l'unica macchina col motore Wankel e che gli inglesi chiamavano perfidamente wanker -vale a dire "segaiolo", e certi italiani anche R0-ottame), poi tutte le sue maestranze e, infine, in un crescendo rossiniano, tutti i tedeschi e la Germania, i luridi nazisti incapaci, Beethoven e la sua musica di merda, la birra e Beckenbauer. Se in quel momento fosse passata un'auto con targa tedesca, sarebbe successo un finimondo.


Finalmente mio padre arrivò, paonazzo, ridotto a una specie di ghiacciolo all'amarena, e di umore assai scuro. Mia madre, vedendo il finestrino rotto, pensò che avesse avuto un incidente; nel frattempo, mentre mio padre spiegava cos'era successo, mio cugino continuava a tirar cazzotti sul tetto della Prinz, che incassava stoicamente. Si rimontò finalmente in macchina, io -che ero piccolo (si fa per dire)- dovetti viaggiare con un plaid addosso (erano i tempi in cui nel bagagliaio delle macchine si teneva sempre una coperta, ché non si sa mai), e s'arrivò a Firenze a buio e ridotti a dei conci.

L'Agedabia restò là abbandonata da tutti, ma non dalla sua padrona. Previi cinque quintali di moccoli, riuscì a convincere un meccanico di Campo a andare a Cecina e a trainarla di nuovo all'Elba. Non so esattamente cosa le era preso, ma fu rimessa in sesto: senza l'Agedabia, mia zia si sentiva persa. Durò ancora due o tre anni prima di defungere definitivamente, e gloriosamente, sulla salita dalla Pila a Sant'Ilario. Mi dissero che mia zia Egle pianse lacrime, pugni al cielo, santantonii, sanfilippi e porchemadonne. Tregge. Vecchie tregge, e se passate per quella strada e vedete una Vasca da Bagno targata Mantova, ricordatevi di questa storia, della vecchia Agedabia sia somara che Prinz, e anche di mia zia che oramai viaggia per strade tutte sue.