venerdì 18 dicembre 2009

L'Elba come Volontà e Rappresentazione





Nel mese di dicembre, praticamente tutti gli anni, vado all'Elba con un qualche pretesto. Tipo andare a pigliare mia zia e portarla a Firenze, ma non capisco. Dipendesse da me, io andrei all'Elba in ottobre e ci passerei tutto l'inverno, che inverno non è. Tanto andrà a finire che, fra non moltissimi anni, pianterò ogni cosa (a parte un mio certo amore piasintëin) e sullo Scoglio andrò a terminare la mia vita in culo a ogni cosa. Per l'intanto, ecco l'isola d'Elba nella sua veste autentica. Dicembre, venti gradi, maniche di camicia, Fetovaia deserta e treggia targata lontanamente Varese. Quando, probabilmente, Varese voleva dire Piero Chiara, Luino, il Balordo e fughe, e non Leghe di merda e razzismi d'accatto.

Fetovaia. Barbatoia. L'ambulanza che si vede la guidavo io, ché la zia ha bisogno di comodità, data la sua età non verde. Un giorno e mezzo, e sole, e vento, e odori. Non avete nemmeno l'idea di che cosa sia l'Elba in questa stagione, a parte poche persone. Soli. Si piglia l'ambulanza per un breve giro, e il Dio dei Venti (che all'Elba sostituisce il Dio dei Bivi) ti mette davanti la Citroën Dyane d'ordinanza. In una posizione che il Dio normale, quello dell'onnipotenza del cazzo, neanche si sognerebbe. Clic, clic. Un giorno e mezzo così, ecco. Se potessi, t'avrei dal fondo sradicata e gettata seimila miglia ancor più al largo; ti ho nel cuore, con le tue forme, isola. Pot pot. La Dyane. Quonne tonat Leucesie prai tet tremonti. Caffè nel freddo polare. La vita. Dort wird es enden. Fetovaia. Il mare senza fine; gradualmente mi stempererò nel sole alla guida lenta e modulata d'una nuvola salmastra.