Un post che, per la sua particolare natura, va in contemporanea sia sul Treggia's Blog che sull' Asocial Network.
Vi voglio, in questa notte di fine estate, raccontare una favola.
Una mattina d'agosto, me ne tornavo stanco morto a casa. Poiché sono fatto all'incontrario di parecchi di voialtri, il mese che sarebbe dedicato alle ferie è per me quello in cui più debbo lavorare in assoluto. Particolarmente di notte; quest'anno, ad esempio, mi è toccato il turno notturno per quindici volte. Dalle 23 (e a volte dalle 20) fino alle 8 del mattino dopo. E non è uno scherzetto: un turno notturno significa non soltanto non chiudere occhio (o chiuderlo molto poco), ma anche penare parecchio. A portare giù a mano, col telo o con la sedia da trasporto, una vecchia di 80 chili da un quarto piano si dura una fatica da schiantare, specie quando fa caldo. Poi bisogna mettere la vecchia sulla barella, tirarla su (sempre a mano) e metterla in ambulanza; una squadra completa sarebbe formata da quattro persone, ma siccome son tutti in ferie le notti si fanno perlopiù in due.
Quella mattina d'agosto in cui tornavo a casa, ero uscito per sei volte. Pur pregustando la dormita mattutina, quella da cui ci si sveglia per la fame verso il tocco e mezzo, procedevo assai lentamente: coi riflessi un po' annebbiati dalla veglia e dalla fatica, bisogna stare attenti. A un certo punto, quasi arrivato a casa, andavo talmente piano che mi stava sorpassando persino una bicicletta. Cosí, almeno, sembrava; poi, però, mi sono accorto che la bici aveva una curiosa appendice, e un ometto sopra che stava pedalando di buona lena.
Non sapevo come definirlo: un carretto, un portabagagli. Era una bicicletta col rimorchio, con tanto di frecce collegate alla dinamo. Sul cassetto rimorchiato, ogni sorta di adesivi e una piccola "targa", sempre adesiva, che mi ha fatto riscuotere dal torpore e anche leggermente sobbalzare:
Ora, dovete sapere che dalle parti di Lille (dipartimento del Nord, 59) ci ho vissuto per un po', qualche anno fa; in quell'antica plaga mineraria ci ero andato a ripulirmi dalle scorie, e ne ero tornato (come spesso mi accade) con ancora più nerume di prima. Mi ero beccato una specie di silicosi esistenziale, in quel frangente in cui saltapicchiavo da un paese all'altro. Quel che ne ho riportato, dopo parecchi anni, sono due cose. La prima è la decisione granitica di non muovermi mai più da Firenze e dalla Toscana; e la seconda è una buffa e struggente nostalgia per luoghi dove non avrei mai pensato non dico di vivere, ma nemmeno di passare per sbaglio. Luoghi non belli, difficili, duri; i loro volti, le loro storie. Me li terrò dentro con la certezza di non tornarvi mai più; ma quando vedo qualcosa che me li ricorda, mi fermo.
Io sono un asociale un po' curioso. Non ho nessuna timidezza nel piantarmi in mezzo di strada, fare gran cenni con le braccia e fermare un tranquillo ometto che pedala una mattina d'agosto per via dell'Argingrosso. Volevo prendere qualche fotografia del suo trabiccolo per il Treggia's Blog, certamente; ma, dopo, non ho resistito a scambiarci due chiacchiere. La cosa più bella è stata la naturalezza di quell'anziano signore; come se essere fermato a un quarto alle nove del mattino in una strada deserta di periferia da uno che gli si rivolge non solo nella sua lingua, ma che azzarda persino qualche parola in chtimi (il patois del Nord-Pas de Calais), fosse la cosa più normale del mondo. Ora che le lingue hanno cessato di essere il mio lavoro, me le tengo come caramelle per l'anima; ed il bello è che mi sono accorto di parlarle molto meglio di prima.
Il signor Roland R., così si chiama, era proprio di Lille; anzi, di un paese vicino, il cui nome non mi era ignoto. E cosí gli ho spiegato in due minuti perché lo avevo fermato, gli ho fatto vedere qualche foto di vecchie autovetture, e gli ho detto che conoscevo bene la sua città con il classico t'es pon d'min cuin hein? Questa frase in chtimi corrisponderebbe al francese standard tu n'es pas de mon coin, "non sei delle mie parti"; viene usata spesso per far sentire la particolare pronuncia di quel dialetto. Ci siamo messi a ridere tutti e due, in mezzo a via dell'Argingrosso (angolo via dell'Isolotto).
Roland ha sessantacinque anni. Deve avere lavorato per tutta la vita, anche se non me lo ha detto. I primi di giugno ha preso la bicicletta, le ha attaccato il trabiccolo con la targa adesiva di Lille e è partito. Destinazione ignota. Mi ha detto: Non ho più un accidente da fare, sono solo e avevo voglia di pedalare fino a chissà dove, era un mio sogno fin da quando ero giovane. Pedala pedala col suo carretto attaccato, passa in Svizzera. Si fa tutta la Svizzera in bici, e comincio a immaginarmi la cosa: io avrei difficoltà, attualmente all'età di anni 48, a farmi in bicicletta persino il cavalcavia dell'Affrico. Questo qui, a sessantacinque anni, ha attraversato la Svizzera.
Poi è passato in Italia, tranquillo tranquillo. Nel carretto, viveri, boccette e palandrane; nelle due borse sistemate sull'attaccatura, la roba da mettersi addosso. Come diceva Guccini in Van Loon: il bagaglio del semplice e del saggio, cioè poco o niente. Pedala pedala, è arrivato a Firenze; se l'è vista perbenino (a piedi), poi è ripartito. Ma dove va, signor Roland?, gli ho chiesto; a Roma, mi ha risposto. Però prima passo per Pisa, mi hanno indicato che si va di qui. Gentilmente gli ho spiegato come prendere la via Pisana da via Baccio da Montelupo, sennò questo qui mi s'infilava col trabiccolo sulla FI-PI-LI. E da Roma, poi? Vado giù finché reggo. Voglio andare in Sicilia. E per tornare? Se reggo torno come sono venuto, se non reggo infilo tutto in un treno. Ci sono i treni laggiù, vero? E ci siamo salutati. L'ho visto ripartire tranquillo, pedalando regolarmente; me ne sono rimasto lí per un momento e forse anche per due.
Nel Nord della Francia, piove sempre. Un detto locale recita: Y a un orage entre deux draches, oppure il pleut entre deux averses (varianti infinite). In pratica: c'è un temporale in mezzo a due piovaschi, oppure: piove in mezzo a due rovesci. Il signor Roland era un po' contrariato di essersi beccato, nel Paese del Sole, una mezza mesata di luglio da fare schifo; ma pazienza. Era lì a pedalarsi un sogno, e in quel suo sogno mi è capitato di imbattermi a cinquanta metri da casa, una mattina d'agosto. In una sua canzone che parla di un ombrello, Georges Brassens vede partire una ragazza allegramente verso il suo oblio; io ho visto partire il signor Roland, sessantacinquenne di Lille, allegramente verso la mia memoria. Non ne uscirà. La sua fa parte dei milioni di favole che non verranno mai raccontate, e che accadono ogni giorno in questo mondo; se però il destino me ne manda una per caso, e pure con la targa e col rimorchio, bisogna che ci passi una notte sopra. Notte più, notte meno.
Vi voglio, in questa notte di fine estate, raccontare una favola.
Una mattina d'agosto, me ne tornavo stanco morto a casa. Poiché sono fatto all'incontrario di parecchi di voialtri, il mese che sarebbe dedicato alle ferie è per me quello in cui più debbo lavorare in assoluto. Particolarmente di notte; quest'anno, ad esempio, mi è toccato il turno notturno per quindici volte. Dalle 23 (e a volte dalle 20) fino alle 8 del mattino dopo. E non è uno scherzetto: un turno notturno significa non soltanto non chiudere occhio (o chiuderlo molto poco), ma anche penare parecchio. A portare giù a mano, col telo o con la sedia da trasporto, una vecchia di 80 chili da un quarto piano si dura una fatica da schiantare, specie quando fa caldo. Poi bisogna mettere la vecchia sulla barella, tirarla su (sempre a mano) e metterla in ambulanza; una squadra completa sarebbe formata da quattro persone, ma siccome son tutti in ferie le notti si fanno perlopiù in due.
Quella mattina d'agosto in cui tornavo a casa, ero uscito per sei volte. Pur pregustando la dormita mattutina, quella da cui ci si sveglia per la fame verso il tocco e mezzo, procedevo assai lentamente: coi riflessi un po' annebbiati dalla veglia e dalla fatica, bisogna stare attenti. A un certo punto, quasi arrivato a casa, andavo talmente piano che mi stava sorpassando persino una bicicletta. Cosí, almeno, sembrava; poi, però, mi sono accorto che la bici aveva una curiosa appendice, e un ometto sopra che stava pedalando di buona lena.
Non sapevo come definirlo: un carretto, un portabagagli. Era una bicicletta col rimorchio, con tanto di frecce collegate alla dinamo. Sul cassetto rimorchiato, ogni sorta di adesivi e una piccola "targa", sempre adesiva, che mi ha fatto riscuotere dal torpore e anche leggermente sobbalzare:
LILLE 59
Ora, dovete sapere che dalle parti di Lille (dipartimento del Nord, 59) ci ho vissuto per un po', qualche anno fa; in quell'antica plaga mineraria ci ero andato a ripulirmi dalle scorie, e ne ero tornato (come spesso mi accade) con ancora più nerume di prima. Mi ero beccato una specie di silicosi esistenziale, in quel frangente in cui saltapicchiavo da un paese all'altro. Quel che ne ho riportato, dopo parecchi anni, sono due cose. La prima è la decisione granitica di non muovermi mai più da Firenze e dalla Toscana; e la seconda è una buffa e struggente nostalgia per luoghi dove non avrei mai pensato non dico di vivere, ma nemmeno di passare per sbaglio. Luoghi non belli, difficili, duri; i loro volti, le loro storie. Me li terrò dentro con la certezza di non tornarvi mai più; ma quando vedo qualcosa che me li ricorda, mi fermo.
Io sono un asociale un po' curioso. Non ho nessuna timidezza nel piantarmi in mezzo di strada, fare gran cenni con le braccia e fermare un tranquillo ometto che pedala una mattina d'agosto per via dell'Argingrosso. Volevo prendere qualche fotografia del suo trabiccolo per il Treggia's Blog, certamente; ma, dopo, non ho resistito a scambiarci due chiacchiere. La cosa più bella è stata la naturalezza di quell'anziano signore; come se essere fermato a un quarto alle nove del mattino in una strada deserta di periferia da uno che gli si rivolge non solo nella sua lingua, ma che azzarda persino qualche parola in chtimi (il patois del Nord-Pas de Calais), fosse la cosa più normale del mondo. Ora che le lingue hanno cessato di essere il mio lavoro, me le tengo come caramelle per l'anima; ed il bello è che mi sono accorto di parlarle molto meglio di prima.
Il signor Roland R., così si chiama, era proprio di Lille; anzi, di un paese vicino, il cui nome non mi era ignoto. E cosí gli ho spiegato in due minuti perché lo avevo fermato, gli ho fatto vedere qualche foto di vecchie autovetture, e gli ho detto che conoscevo bene la sua città con il classico t'es pon d'min cuin hein? Questa frase in chtimi corrisponderebbe al francese standard tu n'es pas de mon coin, "non sei delle mie parti"; viene usata spesso per far sentire la particolare pronuncia di quel dialetto. Ci siamo messi a ridere tutti e due, in mezzo a via dell'Argingrosso (angolo via dell'Isolotto).
Roland ha sessantacinque anni. Deve avere lavorato per tutta la vita, anche se non me lo ha detto. I primi di giugno ha preso la bicicletta, le ha attaccato il trabiccolo con la targa adesiva di Lille e è partito. Destinazione ignota. Mi ha detto: Non ho più un accidente da fare, sono solo e avevo voglia di pedalare fino a chissà dove, era un mio sogno fin da quando ero giovane. Pedala pedala col suo carretto attaccato, passa in Svizzera. Si fa tutta la Svizzera in bici, e comincio a immaginarmi la cosa: io avrei difficoltà, attualmente all'età di anni 48, a farmi in bicicletta persino il cavalcavia dell'Affrico. Questo qui, a sessantacinque anni, ha attraversato la Svizzera.
Poi è passato in Italia, tranquillo tranquillo. Nel carretto, viveri, boccette e palandrane; nelle due borse sistemate sull'attaccatura, la roba da mettersi addosso. Come diceva Guccini in Van Loon: il bagaglio del semplice e del saggio, cioè poco o niente. Pedala pedala, è arrivato a Firenze; se l'è vista perbenino (a piedi), poi è ripartito. Ma dove va, signor Roland?, gli ho chiesto; a Roma, mi ha risposto. Però prima passo per Pisa, mi hanno indicato che si va di qui. Gentilmente gli ho spiegato come prendere la via Pisana da via Baccio da Montelupo, sennò questo qui mi s'infilava col trabiccolo sulla FI-PI-LI. E da Roma, poi? Vado giù finché reggo. Voglio andare in Sicilia. E per tornare? Se reggo torno come sono venuto, se non reggo infilo tutto in un treno. Ci sono i treni laggiù, vero? E ci siamo salutati. L'ho visto ripartire tranquillo, pedalando regolarmente; me ne sono rimasto lí per un momento e forse anche per due.
Nel Nord della Francia, piove sempre. Un detto locale recita: Y a un orage entre deux draches, oppure il pleut entre deux averses (varianti infinite). In pratica: c'è un temporale in mezzo a due piovaschi, oppure: piove in mezzo a due rovesci. Il signor Roland era un po' contrariato di essersi beccato, nel Paese del Sole, una mezza mesata di luglio da fare schifo; ma pazienza. Era lì a pedalarsi un sogno, e in quel suo sogno mi è capitato di imbattermi a cinquanta metri da casa, una mattina d'agosto. In una sua canzone che parla di un ombrello, Georges Brassens vede partire una ragazza allegramente verso il suo oblio; io ho visto partire il signor Roland, sessantacinquenne di Lille, allegramente verso la mia memoria. Non ne uscirà. La sua fa parte dei milioni di favole che non verranno mai raccontate, e che accadono ogni giorno in questo mondo; se però il destino me ne manda una per caso, e pure con la targa e col rimorchio, bisogna che ci passi una notte sopra. Notte più, notte meno.