mercoledì 31 agosto 2011

Pane al pane



Pane al pane: di cacate, e a volte anche di supercacate, la Fabbrica Italiana di Automobili Torino ne ha fatte parecchie, nella sua lunga storia. Di converso, è successo anche che abbia fabbricato dei capolavori; e la Fiat 124 sport ne è uno. Nulla da dire; il coupé/spider carrozzato da Pininfarina è una gran bella autovettura, forse addirittura la più bella che la Fiat abbia prodotto dagli anni '60 in poi. Tanto rigidamente "sovietica" era la berlina corrispondente, quanto la Sport era flessuosa, scattante, leggiadra ma potente.

Presentata al salone dell'automobile di Torino del 1966, era in realtà prodotta interamente da Pininfarina; come auto sportiva ebbe il giusto e meritato successo, arrivando anche a essere esportata negli Stati Uniti. Fu prodotta per quasi vent'anni: gli ultimi esemplari uscirono di fabbrica nel 1985.

Vederne non una, ma addirittura due assieme (e entrambe rosse) non è cosa da poco. Certo, sono stato aiutato da un'occasione particolare: la "Mille Miglia Storica". Per carità, la corsa l'ho evitata come la peste bubbonica; però, queste foto sono state scattate mentre alcuni partecipanti rimettevano le loro preziose automobili su una bisarca, del tutto fuori dal percorso ed in modo assolutamente casuale.


Le biciclette col camper attorno




Sebbene oramai siamo alla fine delle targhe nere, bianche e arancioni (terminate a Firenze con FI E99999, nel giugno 1985), questo camper su base Mercedes 206D  permette di stabilire definitivamente un dogma: in nessuna epoca è mai esistito un camper senza biciclette attaccate dietro. I camper moderni li fanno oramai tutti con gli speciali supporti, e ce ne sono alcuni che potrebbero ospitare un intero cambio di velocipedi per una squadra del Tour de France; un tempo, come si può vedere su questo automezzo (che proviene dal famoso Carrozziere di Figline), l'arte di arrangiarsi regnava invece sovrana. Non importava come, ma le biciclette bisognava attaccarcele, di riffa o di raffa. Anche se i camperisti non sapevano nemmeno pedalare, le biciclette ci dovevano essere; un camper senza biciclette è finto, serve soltanto per essere tenuto fermo in un parcheggio pronto magari all'uso con la migliore amica della moglie (o il migliore amico del marito, va da sé). Si noti qui anche il regolare cartello di ingombro posteriore, che rendeva i camper simili al camion del muratore; tempi eroici!

lunedì 29 agosto 2011

Back in Noorbridge



Una cosa accomuna senz'altro il Treggista all'assassino: quella di tornare sempre sul luogo. Avreste voi voluto che il sottoscritto non rifacesse una capatina all'officina di Pontenure, dopo quella popo' di performance dello scorso anno? Impossibile. E, infatti, le aspettative non sono andate deluse.

In un'officina del genere, c'è da aspettarsi che anche i carrattrezzi non siano di quelli che si vedono tutti i giorni. Il qui presente, del quale ignoro totalmente il modello, va a ripigliare le auto disastrate sul quel tratto della via Emilia; e arrivo a dire che, per essere preso da un carrattrezzi del genere, potrei anche decidere di procurarmi un guasto da solo, oppure danneggiare la macchina investendo il locale segretario della sezione del PDL o della Lega (questo si chiama: unire l'utile al dilettevole).

Palese la ritargatura del mezzo; però, almeno in questo caso, ha dato una combinazione 447 449 (progressione dispari) decisamente interessante. Guai a toccare la provincia di Piacenza! Sappiano i bravi piasintëin che da Firenze c'è qualcuno che tifa per loro. Un tempo, lo so, questa mia presa di posizione sarebbe bastata per guadagnarmi un titolo sulla Libertà; ma i tempi cambiano. O tempora! O mores di rovos!

Una favola col rimorchio



Un post che, per la sua particolare natura, va in contemporanea sia sul Treggia's Blog che sull' Asocial Network.

Vi voglio, in questa notte di fine estate, raccontare una favola.

Una mattina d'agosto, me ne tornavo stanco morto a casa. Poiché sono fatto all'incontrario di parecchi di voialtri, il mese che sarebbe dedicato alle ferie è per me quello in cui più debbo lavorare in assoluto. Particolarmente di notte; quest'anno, ad esempio, mi è toccato il turno notturno per quindici volte. Dalle 23 (e a volte dalle 20) fino alle 8 del mattino dopo. E non è uno scherzetto: un turno notturno significa non soltanto non chiudere occhio (o chiuderlo molto poco), ma anche penare parecchio. A portare giù a mano, col telo o con la sedia da trasporto, una vecchia di 80 chili da un quarto piano si dura una fatica da schiantare, specie quando fa caldo. Poi bisogna mettere la vecchia sulla barella, tirarla su (sempre a mano) e metterla in ambulanza; una squadra completa sarebbe formata da quattro persone, ma siccome son tutti in ferie le notti si fanno perlopiù in due.

Quella mattina d'agosto in cui tornavo a casa, ero uscito per sei volte. Pur pregustando la dormita mattutina, quella da cui ci si sveglia per la fame verso il tocco e mezzo, procedevo assai lentamente: coi riflessi un po' annebbiati dalla veglia e dalla fatica, bisogna stare attenti. A un certo punto, quasi arrivato a casa, andavo talmente piano che mi stava sorpassando persino una bicicletta. Cosí, almeno, sembrava; poi, però, mi sono accorto che la bici aveva una curiosa appendice, e un ometto sopra che stava pedalando di buona lena.

Non sapevo come definirlo: un carretto, un portabagagli. Era una bicicletta col rimorchio, con tanto di frecce collegate alla dinamo. Sul cassetto rimorchiato, ogni sorta di adesivi e una piccola "targa", sempre adesiva, che mi ha fatto riscuotere dal torpore e anche leggermente sobbalzare:

LILLE 59

Ora, dovete sapere che dalle parti di Lille (dipartimento del Nord, 59) ci ho vissuto per un po', qualche anno fa; in quell'antica plaga mineraria ci ero andato a ripulirmi dalle scorie, e ne ero tornato (come spesso mi accade) con ancora più nerume di prima. Mi ero beccato una specie di silicosi esistenziale, in quel frangente in cui saltapicchiavo da un paese all'altro. Quel che ne ho riportato, dopo parecchi anni, sono due cose. La prima è la decisione granitica di non muovermi mai più da Firenze e dalla Toscana; e la seconda è una buffa e struggente nostalgia per luoghi dove non avrei mai pensato non dico di vivere, ma nemmeno di passare per sbaglio. Luoghi non belli, difficili, duri; i loro volti, le loro storie. Me li terrò dentro con la certezza di non tornarvi mai più; ma quando vedo qualcosa che me li ricorda, mi fermo.

Io sono un asociale un po' curioso. Non ho nessuna timidezza nel piantarmi in mezzo di strada, fare gran cenni con le braccia e fermare un tranquillo ometto che pedala una mattina d'agosto per via dell'Argingrosso. Volevo prendere qualche fotografia del suo trabiccolo per il Treggia's Blog, certamente; ma, dopo, non ho resistito a scambiarci due chiacchiere. La cosa più bella è stata la naturalezza di quell'anziano signore; come se essere fermato a un quarto alle nove del mattino in una strada deserta di periferia da uno che gli si rivolge non solo nella sua lingua, ma che azzarda persino qualche parola in chtimi (il patois del Nord-Pas de Calais), fosse la cosa più normale del mondo. Ora che le lingue hanno cessato di essere il mio lavoro, me le tengo come caramelle per l'anima; ed il bello è che mi sono accorto di parlarle molto meglio di prima.

Il signor Roland R., così si chiama, era proprio di Lille; anzi, di un paese vicino, il cui nome non mi era ignoto. E cosí gli ho spiegato in due minuti perché lo avevo fermato, gli ho fatto vedere qualche foto di vecchie autovetture, e gli ho detto che conoscevo bene la sua città con il classico t'es pon d'min cuin hein? Questa frase in chtimi corrisponderebbe al francese standard tu n'es pas de mon coin, "non sei delle mie parti"; viene usata spesso per far sentire la particolare pronuncia di quel dialetto. Ci siamo messi a ridere tutti e due, in mezzo a via dell'Argingrosso (angolo via dell'Isolotto).

Roland ha sessantacinque anni. Deve avere lavorato per tutta la vita, anche se non me lo ha detto. I primi di giugno ha preso la bicicletta, le ha attaccato il trabiccolo con la targa adesiva di Lille e è partito. Destinazione ignota. Mi ha detto: Non ho più un accidente da fare, sono solo e avevo voglia di pedalare fino a chissà dove, era un mio sogno fin da quando ero giovane. Pedala pedala col suo carretto attaccato, passa in Svizzera. Si fa tutta la Svizzera in bici, e comincio a immaginarmi la cosa: io avrei difficoltà, attualmente all'età di anni 48, a farmi in bicicletta persino il cavalcavia dell'Affrico. Questo qui, a sessantacinque anni, ha attraversato la Svizzera.

Poi è passato in Italia, tranquillo tranquillo. Nel carretto, viveri, boccette e palandrane; nelle due borse sistemate sull'attaccatura, la roba da mettersi addosso. Come diceva Guccini in Van Loon: il bagaglio del semplice e del saggio, cioè poco o niente. Pedala pedala, è arrivato a Firenze; se l'è vista perbenino (a piedi), poi è ripartito. Ma dove va, signor Roland?, gli ho chiesto; a Roma, mi ha risposto. Però prima passo per Pisa, mi hanno indicato che si va di qui. Gentilmente gli ho spiegato come prendere la via Pisana da via Baccio da Montelupo, sennò questo qui mi s'infilava col trabiccolo sulla FI-PI-LI. E da Roma, poi? Vado giù finché reggo. Voglio andare in Sicilia. E per tornare? Se reggo torno come sono venuto, se non reggo infilo tutto in un treno. Ci sono i treni laggiù, vero? E ci siamo salutati. L'ho visto ripartire tranquillo, pedalando regolarmente; me ne sono rimasto lí per un momento e forse anche per due.

Nel Nord della Francia, piove sempre. Un detto locale recita: Y a un orage entre deux draches, oppure il pleut entre deux averses (varianti infinite). In pratica: c'è un temporale in mezzo a due piovaschi, oppure: piove in mezzo a due rovesci. Il signor Roland era un po' contrariato di essersi beccato, nel Paese del Sole, una mezza mesata di luglio da fare schifo; ma pazienza. Era lì a pedalarsi un sogno, e in quel suo sogno mi è capitato di imbattermi a cinquanta metri da casa, una mattina d'agosto. In una sua canzone che parla di un ombrello, Georges Brassens vede partire una ragazza allegramente verso il suo oblio; io ho visto partire il signor Roland, sessantacinquenne di Lille, allegramente verso la mia memoria. Non ne uscirà. La sua fa parte dei milioni di favole che non verranno mai raccontate, e che accadono ogni giorno in questo mondo; se però il destino me ne manda una per caso, e pure con la targa e col rimorchio, bisogna che ci passi una notte sopra. Notte più, notte meno.


日本車は非常に醜いいたとき...


Al giorno d'oggi, le macchine giapponesi si sono omologate ai canoni estetici internazionali; in diversi casi, son diventate persino belline e "modaiole". Non era così un tempo, quando non venivano quasi mai esportate e dovevano corrispondere ai particolari gusti dei sudditi del Sol Levante. I quali gusti erano decisamente indigesti a noialtri "occidentali", a parte qualche irriducibile appassionato che già allora aveva giurato eterna fedeltà a Hiro Hito. Certo che rivederne qualcuna nelle nostre strade, di quelle primeve vetture nipponiche, suscita quasi nostalgia; e un Treggista duro e puro non può altro che rimpiangerle. Quelle erano le vere macchine giapponesi, senza compromessi, senza indulgenza alcuna nei confronti dei mercati lontani; casomai, agli europei venivano propinate le motociclette. Nomi come Honda, Kawasaki, Suzuki e Yamaha hanno significato, per un periodo cospicuo, soltanto due ruote; la Toyota non faceva (e non fa tuttora) motociclette, ma si era specializzata nei fuoristrada (Toyota è stato a lungo sinonimo "tout court" di fuoristrada). C'erano poi tutte le inconsuete combinazioni delle grandi case meccaniche giapponesi; dalle nostre parti non si riusciva proprio a capire come mai, ad esempio, la Yamaha potesse produrre indifferentemente motociclette e strumenti musicali (comprese le corde per chitarra). Eppure, anche da noi può succede (e succede ancora) che la svedese Husqvarna produca sia ottime moto da cross, sia eccellenti macchine per cucire ed altri macchinari tessili...

Insomma, dopo questo lungo preambolo, la premiata ditta Fabrizio & Treggista vi presenta questa rarissima Honda Civic del 1977 reperita in qualche strada della Superba. La Honda Civic è diventata poi uno dei modelli giapponesi più diffusi, opportunamente ammodernati e "occidentalizzati"; ma qui la vediamo in una sua versione ancora interamente nipponica, di quell'epoca in cui ne arrivavano poche e regolarmente guardate con altezzosa sufficienza: Ma come avrà fatto a comprare quel troiaio giapponese? Certo che in Giappone saranno bravi a far tutto, ma le macchine fanno davvero schifo...almeno in quello non ci batteranno mai! Il risultato è che, ora come ora, le autovetture giapponesi sono le più diffuse nel mondo ed occupano anche da noi una bella fetta di mercato. E noi abbiamo concepito la Fiat Stilo...

NB. Il titolo giapponese dovrebbe significare qualcosa come "quando le macchine giapponesi erano cosí brutte", ma non garantisco della sua correttezza; l'ho fatto col traduttore automatico di Google.

domenica 28 agosto 2011

La Nana





Premessa. Questo post lo vorrei dedicare a una persona ben precisa; si tratta di Francesco Gavilli, di Meleto nel Valdarno (chissà quali frutti vi si coltivavano storicamente, mi sto domandando...), che mi ha scritto un'arcaica mail che mi ha fatto stare, stamani, parecchio ma parecchio bene. E non è poco, sotto questi chiardiluna. A Francesco, operaio agricolo e giardiniere, fratello nella non presenza sul Libro de' Ceffi, dico soltanto una cosa così tanto per rimpolpare il ringraziamento che gli porgo: io sono un notorio disastro con le risposte alle mail. Preferisco procedere altrimenti, magari pigliando una treggia e legarla ad una data persona. Non è una semplice dedica, pur sentita: è il promemoria di un'esistenza e di un momento. Ma ora è il momento di passare a questa vettura.

Una treggia, stavolta, a dir poco eccezionale. Si tratta di una MG Midget del 1978; a vederla, uno penserebbe forse ad una reimmatricolazione dagli anni '60 (e, in effetti, la sua produzione iniziò nel 1961), ma rimase in vendita fino al 1979. Si tratta quindi di un originale.

Me ne uscivo bel bello da una delle mie nottate passate a guidare ambulanze e a raccattare ragazzini cascati dal motorino (quelli che, quando qualche volta si fanno male sul serio o ci rimettono le penne, è sempre colpa del briaco di turno e non delle cose criminali che fanno sui loro sparacuregge pagati dal babbo; ma pensassero invece a non fare gli imbecilli e a mettere in pericolo la loro vita e quella degli altri), vecchi che non respirano al quinto piano e sempre alle 4 di mattina, e altre cose del genere. Quando esco da un turno notturno sono sempre molto zen; mi metto a scandagliare le vetture parcheggiate, procedendo a velocità da sbadiglio mentre torno a casa, e cosí facevo quella mattina. Ford Ka, Clio, Panda, SUV Renegado/Sorento/Qashqai (qashqasti, qashqò), macchinina a pedali, Honda HRV....come?...macchinina a pedali?!?

Inchiodata. Scendo sí assonnato e devastato, ma con la Kodak in mano. Davanti a me ho una cosa eccezionale: una Mg Midget. Midget, in inglese, vuol dire "nano"; le grammatiche per gli itagliani insegnano sí che "nano" di dice dwarf (plurale: dwarves), ma quella è una parola per i racconti di fate (ed è per questo che un italiano all'estero, quando sfoggia il suo inglese, fa automaticamente sghignazzare tutta la compagnia). Mai nome fu più azzeccato: le dimensioni dello spaiderino sono effettivamente paragonabili a quelle di un'automobilina a pedali, ed anche l'aspetto non è in fondo dissimile.


Il bello è che, stavolta, non si tratta affatto del solito spaiderino d'epoca tutto rileccato e lezioso, pronto per il fighetto di turno e ovviamente anche per la di lui fidanzatina; tutt'altro. Verniciaccia scrostata, chiazze, interno tenuto alla 'ioboia, e l'aria vissuta di una vettura usata per davvero, quotidianamente. Il primo esempio di spaiderino da battaglia che io abbia visto; quasi stavo per tributargli un applauso, ma poi ho pensato che mi trovavo parecchio vicino a San Salvi. A San Salvi il manicomio non c'è più, ma sfoggia pur sempre degli ottimi centri di igiene mentale dove sicuramente qualcuno mi avrebbe invitato a rivolgermi, e con urgenza.

Nana sí, ma attenzione. Da battaglia, macchinina a pedali, sgarrupata, ma ha pur sempre dentro un motorino di quasi milleccinque di cilindrata, derivato da quello della Austin Healey. Altro che pedali: questa qui, quando parte, la fa le ritrécini. Quasi me la vedo montare sopra un SUV e atterrare dall'altra parte. Un contribuito ad un'immagine più positiva dei nani, dopo la famosa canzone di De André e, soprattutto, dopo la discesa in campo del Nanaccio per eccellenza (e del suo omologo Brunetta). Non dobbiamo certamente avercela con chi è di bassa statura (e lo dice uno alto un metro e novanta), anche se Berlusconi, senz'altro, ha tirato fuori tutto ciò che politicamente scorretto esiste in noi. La trasmissione mica si chiamava L'ottavo Diversamente Alto, del resto.

Certo che, almeno un po', fa pensare. Ma in Gran Bretagna, agli inizi degli anni '60, la statura media era cosí bassa? E i fieri scozzesoni delle Highlands? O stai a vedere che Braveheart gli era una mezzasega? Chi lo sa. Certo che, prima di rimontare sulla mia poderosa Fiesta scassata (e con 285.000 km sul groppone) mi sono visto, per un lungo attimo, montare estasiato su quella vettura, mettere in moto, sentire il rombo, e rimanerci incastrato per sempre. Primo esempio di uno che fa nòcciolo con una macchina; il Guinness dei primati non me lo avrebbe levato nessuno.

La Grésivaudane




La presente (e stupenda) R4 girava un po' ovunque a Firenze nella settimana ferragostana: sarà probabilmente per la rarefazione del traffico, ma nel mese d'agosto càpita sovente di incontrare la stessa vettura in punti diversi della città, e spesso lontanissimi l'uno dall'altro.

Oltre all'arancione fantasmagorico e allegro, presenta una vecchia targa del dipartimento dell'Isère, la cui prefettura è la città di Grenoble. A Grenoble ci sono stato abbastanza di recente, ovviamente alla guida di un'ambulanza; ma non è certo di questo che ho intenzione di parlare (anche perché di Grenoble ho visto solo l'ospedale cittadino). Piuttosto, prendo l'occasione per esercitare un po' la mia antica arte della linguistica, ché il TB è oramai l'ultimo baluardo dove un po' mi diletto ancora di far due o tre cicalate. Quel che segue, tra le altre cose, spiega il titolo di questo post.

Grenoble è antica città romana; prova ne sia che il suo nome procede diretto, ovviamente con le alterazioni fonetiche storiche proprie del francese di quelle parti, dal latino Gratianopolis (e sembra che Ultras Gratianopolis sia il nome d'una banda di supertifosi della locale squadra di pallone). Gli è che, però, una bella valle dell'Isère che proprio a Grenoble mena, si chiama Vallée du Grésivaudan. E qui entrano in scena gli ambienti fonetici, la posizione dell'accento (vale a dire la vocale tonica) e altri vari accidenti linguistici: Grésivaudan deriva infatti da Gratianopolitanus, l'aggettivo corrispondente a Gratianopolis. Le lingue e le sue parole son cose apparentemente bizzarre; uno si potrebbe chiedere, e ragionevolmente, come mai Gratianopolis abbia dato Grenoble, e Gratianopolitanus abbia invece dato Grésivaudan. Due parole che non sembrano azzeccarci nulla l'una con l'altra; ed il bello è che si tratta invece di sviluppi fonetici assolutamente logici e regolari, innescati dalla differenza di posizione dell'accento (Gratianòpolis, Gratianopolitànus).

Anticamente, gli abitanti stessi di Grenoble si chiamavano Grésivaudans; piuttosto intelligentemente, al giorno d'oggi si chiamano invece, regolarmente, Grenoblois. La denominazione di Grésivaudan è però ancora applicata alla valle adiacente, e per questo post con la Errequattro arancione immatriculée en 38 ho scelto di fare un tuffo nel passato. Insomma significa semplicemente "la Grenoblese", senza contare che potrebbe anche provenire proprio dalla valle del Grésivaudan.

Naturalmente non si creda che tutto ciò sia farina del mio sacco; proviene anzi, a mo' di esempio degli sconquassi fonostorici che possono derivare da una diversa posizione dell'accento, da una delle opere capitali e fondanti della linguistica moderna, il Cours de linguistique générale del ginevrino Ferdinand de Saussure. Quello del signifié e del signifiant, insomma; in pratica, il fondatore della linguistica moderna e dello strutturalismo, della langue e parole, della diacronia e della sincronia. Quello che, a 15 anni, durante un compito in classe di greco, scoprì l'esistenza della nasale sonante ragionando sulla forma verbale omerica τετάχαται. Sto riandando a memoria a mie vecchie, vecchissime cose; diceva lo scrittore Mérimée della sua famosa Colomba che pe' far la to' vendetta, sta sigur, vasta anch'ella (da un vocero del Niolo). Ecco, pe' far la me' linguistica, sta sigur, vasta un' Errequattro arancione fotografata sotto le mura di via Gusciana, a Firenze, alla vigilia di Ferragosto.


Ardente Ardea



Come sapranno bene i miei 34 lettori (ne ho pur sempre più di Alessandro Manzoni e dei suoi Treggia's Sposi), le Lance storiche recavano quasi invariabilmente nomi di strade consolari romane: Appia, Aurelia, Flaminia...; dico "quasi", perché la Lancia Ardea, lanciata nel 1939, si chiamava in realtà cosí da un'antichissima città laziale, situata più o meno dove ora sorge il disastro di Pomezia. Fu la prima vettura di piccola cilindrata (903 cc) prodotta dalla Lancia, e la si potrebbe un po' definire come la bisnonna della Ypsilon.

Mark B., che con questa sua non indifferente trouvaille nei dintorni di Firenze ritorna in pompa magna sul TB, ce ne propone un esemplare nella pienissima filosofia del Treggista: niente autoraduni o roba del genere, ma un normalissimo parcheggio in una strada anonima, davanti a un banalissimo condominio. L'ardente Ardea (ardente nonostante il blu scuro) che ci propone presenta però un paio di caratteristiche che vanno messe in risalto.

Innanzitutto, siamo di fronte con tutta probabilità ad un'immatricolazione non originale, nonostante la sua notevolissima antichità. La targa è infatti del 1955, quando la produzione dell'Ardea cessò invece due anni prima, nel 1953. Certo, erano tempi in cui acquistare un'automobile (e una Lancia, per giunta, seppure "piccola") era cosa per pochi; si potrebbe quindi trattare di una giacenza. La targa viterbese, inoltre, "puzza" un po' di riproduzione o rifacimento; nonostante il luogo dove Mark B. la ha reperita, questa vettura deve comunque frequentare raduni e compagnia bella (si notino le sue condizioni assolutamente perfette).

sabato 27 agosto 2011

El gran cacharro de Salta



Verso la fine d'ogni estate, puntuale come un orologio di La-Chaux-des-Fonds, INSCO torna dai suoi viaggi 'ntornaimmondo (che in fiorentino vuol dire intorno al mondo, e non che è un immondo che non torna). Stavolta, abbandonata per un anno l'Asia centrale (detta familiarmente Assurdistan), se n'è andato in Argentina; e sia mai che non ne riporti qualche orrifica treggia reperita per carreteras degne di qualche racconto di Borges. In effetti, vedendo questa qui raffigurata, la si potrebbe tranquillamente creder proveniente da qualche plaga tra Tlön, Uqbar e Orbis Tertius.

Ma sia lasciata per un attimo la parola a INSCO stesso. A sentir lui, siamo "...Sulla strada nazionale 40, che percorre cinquemila chilometri (così pare) tra un capo e l'altro del paese. Il tratto è quello che da Salta va verso Cafayete. Una "strada del vino" che attraversa diversi parchi nazionali." In Argentina, strade nazionali di 5000 km devono essere più o meno all'ordine del giorno, e non v'ha dubbio alcuno che il modo migliore per percorrerle sia appunto a bordo di una non meglio precisata Ford di chissà quale modello e anno. Amo molto INSCO e le sue scorribande per plaghe polverose e sassose; mi è capitato di conoscere gente tutta persa in sogni idealizzanti, e che però non ha smosso mai il culetto per andare a vedere se la realtà corrispondeva effettivamente a quel che aveva in testa. C'è gente che preferisce cullarsi nell'irrealtà, e che ha una gran paura delle delusioni; è c'è invece gente che prende un carretto o un aereo e va a vedere di persona. Nonostante ultimamente io sia diventato un sedentario toscocentrico, preferisco senz'altro chi piglia, va e i sogni -casomai- se li fabbrica dopo aver immaginato vedendo, o visto immaginando. Riportando magari qualche treggia come questa, e un borgotrecase sperduto chissà dove, e un cane accucciato, e persino l'intravvisione di un'altra treggia universale (la R4 che si vede di sfuggita dietro la Ford).

Forse non ci credereste, ma il qui presente, se fosse meno pigro, da quest'immagine sarebbe capace di cavar fuori una storia intera. Chissà che, un giorno o l'altro, non lo faccia!

La mattina di Ferragosto






Lo crederete benissimo, ma il vostro Treggista Preferito® è un po' matto nel capino. Ad esempio, la mattina di domenica 14 agosto si è recato con la piasintëina e un'amica a passare i giorni ferragostani in campagna, in un paesino sopra Poppi (75 km circa). La sera verso le nove è ripartito per Firenze a fare un turno notturno senza dormire nemmeno un'ora, e una volta smontato alle 8 del mattino di Ferragosto è ripartito per Poppi. Cose cosí, bisogna essere appunto un po' matti per farlo ed anche, mi sia permessa una tarzanata, dotati di una certa resistenza fisica. Nonostante l'età, i quintali di sigarette, l'alcool e l'assenza totale di orari regolati, credo di dare ancora dei bei punti a certi giovinotti che al primo turno notturno si sono sentiti male la mattina dopo.

La cosa ha comunque i suoi lati positivi: percorrendo le vie di Firenze la mattina di Ferragosto, assolutamente deserte, ecco che proprio all'angolo di una strada che -in un tempo oramai molto lontano- mi fu assai consueta, mi si para davanti agli occhi questa irreprensibile e aplombata Fiat 850 Sport con targa senese del 1969. Con tutta probabilità, la vettura dall'aspetto più felino che sia mai stata prodotta in Italia: ditemi voi se il suo anteriore non è il muso di un gatto, nato e spiccicato, con tanto di baffi!

Parecchio meglio di Bersani (ma non di Lazzaro Ponticelli)



La bella Mercedes W113, vale a dire una Pagoda, che vedete nella foto è tutto ciò che resta di una serie di fotografie andate a male per scaricamento della Kodak. A volte, purtroppo, succede; e menomale che almeno due se ne sono salvate. Il luogo è altamente interessante: si tratta della principal piazza di Bettola, provincia di Piacenza della quale rappresenta una delle località storiche. La Pagoda con targa alessandrina (del 1973, ma potrebbe trattarsi di una ritargatura), le cui terga sono andate perdute a causa dello scaricamento di cui sopra, faceva parte di un gruppetto di sue simili che si erano raunate in piazza, probabilmente a sommo studio in una bella domenica della scorsa primavera; difficile se non impossibile sarà rincontrarle.

La cittadina di Bettola dovrebbe essere nota per mille cose; attualmente, ohimé, è però conosciuta più che altro per aver dato i natali al segretario di un indistinto blob di politicanze, di cui forse non mi ricordo neppure il nome. Si tratta, come tutti avranno immaginato, di tale Bersani; sarebbe senz'altro preferibile ricordare Bettola (assieme ad altre località della provincia piacentina, come la mitica Pontenure) per le mille e mille storie di emigrazione in Francia. Tra queste, quella di Lazzaro Ponticelli.


Lazzaro (o Lazare) Ponticelli nel 2006, all'età di 109 anni.

Invece di conoscere Bersani, sarebbe meglio conoscere la storia di questo bettolese (in realtà era nato a Groppoducale, una frazione di Bettola, il 7 dicembre 1897) emigrato in Francia. Alla sua morte, avvenuta il 12 marzo 2008 all'età di quasi 111 anni, era l'ultimo sopravvissuto della Grande Guerra, dove aveva combattuto sia per l'Italia che per la Francia (nella foto, infatti, lo si vede in mezzo a due giovani vestiti con le uniformi tedesca (a sinistra) e francese (a destra) della guerra '15-'18 (il bello gli è che, fra poco, nel '15 e nel '18 ci saremo di nuovo, un secolo dopo). L'ultimo fante, l'ultimo poilu. Divenuto un imprenditore, in Francia dove visse sempre fino alla morte, non amava parlare di quella sua esperienza, di quel massacro; soltanto nell'estrema vecchiaia ebbe a pronunciare parole decise contro la guerra, rifiutando i funerali di stato che gli erano stati offerti. Nel 1942 collaborò anche con la Resistenza francese contro gli occupanti nazifascisti.

Ecco, anche con una semplice autovettura si può andare a parlare di queste cose, ricordando e onorando chi lo merita davvero; è la funzione più alta che riconosco a questo blogghino, che è però, a modo suo, uno strumento di memoria.

giovedì 25 agosto 2011

El desastre de Miñánego





Che Mignanego sia oramai, e stabilmente, un locum treggisticum tra i principali d'Itaglia, mi sembra assodato e al di là di ogni ragionevole dubbio; lo conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, questo spaventevole furgone Bedford capitato là nientepopodimeno che da Aosta. Qui non c'entrano targhe nere o targhe bianche: un disastro del genere meriterebbe, se esistesse, la prima pagina e titolo a nove colonne sulla Gazzetta della Treggia; e se invece esistesse la Settimana Treggistica (dove sicuramente avrei la funzione del cav. Sisini conte di Sant'Andrea), vanterebbe senz'altro 205 tentativi di imitazione. Qui si va anche oltre la pura e semplice treggia: questo è un capolavoro di arte moderna degno del museo Treggenheim. Un giorno o l'altro studierò un logo del TB con relativa bandiera, e una delle prime sarà piantata a Mignanego.

mercoledì 24 agosto 2011

Scoperto il culo





In principio fu il culo; ma no, non si tema chissà cosa, per esempio che il TB si sia trasformato all'improvviso in un sito porchereccio del tipo Quel gran pezzo della Geggia, tutta nuda e tutta treggia. Semplicemente, l'unico (e raro) esemplare di Fiat 127 quattroporte finora inserito si era rivelato una delle "prese al volo" più comiche e incomplete, con soltanto il posteriore dell'autovettura ripreso mente sfilava via. Con questo esemplare maremmano, manco a dirlo del 1977, il culo viene finalmente scoperto e si disvela davanti ai nostri avidi occhi e perversi l'interezza delle quattro porte applicate ad una 127. Ed in effetti, a pensarci bene, la cosa ha un che di libidinoso, di boccaccesco!

martedì 23 agosto 2011

Le tregge di Néstor Lunar (2)





E di regali, proprio a due passi da dove lo avevo trovato solo pochi giorni prima, Néstor ha voluto farmene un altro di quelli coi controfiocchi. Nelle "tabelle complete" di targheitaliane.com, i motoveicoli spezzini iniziano con SP 771 (anzi, con 771 SP, seguendo l'ordine cifra-sigla di allora); la data riportata è quella del 15 luglio 1937. Qui siamo invece ben prima: il proprietario, al quale la moto si era inopinatamente fermata in una posizione assai poco rispettosa (davanti a dei cassonetti della nettezza), mi ha detto che la Moto Guzzi 500 Tre Cilindri Stradale che aveva sotto il kiülo era del 1932, è c'è da credergli visto che la moto in questione fu prodotta esclusivamente tra il 1932 e il 1933. Ne deve aver fatta di strada prima di "approdare" ai cassonetti in località Lapo, sulla Faentina a pochi metri dal confine fiesolano; ma certamente non sapremo mai quanta, dato che i modelli di allora erano totalmente privi di strumentazione (non c'era neppure un ago della benzina, e quindi il conducente doveva sapere quanti litri teneva il serbatoio e regolarsi di conseguenza, e soprattutto aver sempre a disposizione una tanica e scarpe buone per farsi chissà quanti chilometri per trovare una pompa qualora fosse rimasto a secco). Poi è tornata fortunatamente in moto; e vi avrei fatto sentire il rompo e il po-po-po. Roba, davvero, d'altri tempi; e mi è sembrato di sentire un lontano miagolio tra le nuvole.

Le tregge di Néstor Lunar (1)





Proprio nel giorno in cui andavo a mettere Néstor Lunar sulla Luna, uno stramaledetto 24 di giugno, il Dio de' Bivi ha come voluto mandarmi una specie di consolazione, o il segno che aveva capito. Il Dio de' Bivi non può far altro che mandare tregge, ma attraverso di esse mi ha donato un mezzo sorriso in una giornata da dimenticare.

Non per catturare emozioni, non per esagerare o per suscitare chissà cosa; anzi, a distanza di due mesi, mi sento pervaso da una tranquillità che poche volte avevo provato prima. Mi dicevo e dicevo, in quel giorno, di non avere nessunissima voglia di fotografare automobili trovate per la strada; poi è andata a finire che le ho considerate una specie di regalo, visto che Néstor non aveva fatto in tempo, nella sua brevissima vita, a portarmi i "regalini" che tutti i gatti prima o poi fanno. Ora, mentre sto scrivendo, un altro gattino nero come lui sta sul letto e mi guarda; ci ho messo un po' di tempo prima di inserire le fotografie scattate quel giorno.

Bella e scattante, questa Fulvia coupé rossa del 1979 (per il 1979, l'anno di FI A00000, non c'è bisogno di tabelle); scattante proprio come un gatto, me la immagino.

Pisorno




Che le plaghe del litorale tra Pisa e Livorno siano un tutt'uno, nonostante la ben nota rivalità che si esplica soprattutto nel gioco del pallone e nelle pagine del Vernacoliere, è un dato di fatto; in realtà, e lo dico avendoci vissuto per un bel po' d'anni, Livorno non potrebbe esistere senza Pisa, e viceversa. In altre zone sarebbero la stessa città, ed è bene ricordare che Livorno nacque come Porto Pisano una volta che i detriti dell'Arno ebbero interrato il primevo porto dell'antica repubblica marinara.

Quel che rimane a bocca d'Arno è Marina di Pisa, patria dei due Pontecorvo (il regista Gillo e lo scienziato Bruno, noto anche come Бруно Арнолдович Понтекорво dopo che "emigrò" nell'ex Unione Sovietica divenendone cittadino. Marina di Pisa, con il suo agitato litorale in costante erosione, è per me un luogo assolutamente affascinante. Con le sue architetture démodé, le misteriose colonie semidiroccate, il sole a picco e le vie calcinate e parallele, è un luogo che ha una sua bellezza rude e fermatempo. Ed è appunto da una via di questa Pisorno immaginaria, luogo cinematografico per eccellenza, che proviene questo T2 livornese camperizzato. Del 1976, come recita l'ovale che esime dal ricorrere alle tabelle; e sta lì, in un posto giusto a mezz'estate.

lunedì 22 agosto 2011

Back home


Il presente esemplare e fantasmagorico di Maggiolino Jeans del 1974, inviatomi ovviamente dall'amico Fabrizio, mi dà l'occasione per qualche disquisizione in puro stile treggiablogghiero.

Innanzitutto è bene focalizzarsi sull'anno: il 1974. Pieni anni '70, giovanilismo a gogò, quando le estati erano estati sul serio e tutto il resto. I jeans, naturalmente, erano uno dei simboli di tutto ciò; sospetto anche che alla cosa abbia contribuito, e non poco, anche il loro stesso nome. Le assonanze fonologiche sono un fenomeno abbastanza sfuggente e difficile da captare, nonostante il fonosimbolismo di Otto Jespersen; però si riesce comunque a intuire che il nome jeans ha una ben precisa assonanza con "giovane" in varie lingue, particolarmente in francese (jeunes "giovani"). Anche in italiano basta quel "gi-" iniziale per innestare l'assonanza simbolica che ha un ben preciso valore; proprio in quegli anni, furoreggiava ad esempio una bambola prodotta dalla Furga: Lisa Jeans, la bambola di 15 anni. Con tanto di accessori e storielline liceali (e una vera modella quindicenne che la impersonava in blue jeans), e mi spiace di non essere riuscito a reperire in rete nessuna immagine (che probabilmente, comunque, tornerà in mente a qualcuno della mia generazione). Facile quindi che i jeans andassero a finire anche in un modello del Maggiolino, auto "giovane" per eccellenza (e pensare che nel prototipo di Ferdinand Porsche ci aveva messo bocca anche Adolf Hitler...), e giustappunto nel 1974 o giù di lì. Naturalmente il modello era arancione; jeans quanto si vuole, ma un maggiolino blu...

Curioso poi che il Maggiolino Jeans fabriziano sia stato reperito proprio a Genova; da qui il titolo di questo post, che ha bisogno di qualche spiegazione. Il nome jeans pare infatti derivare proprio da quello di Genova, dato che il robustissimo tessuto blu poi importato in America dal famoso ebreo tedesco Levi Strauss (o Löb Strauß, com'era nato) per farne pantaloni per minatori e lavoratori pare essere originario della riviera mediterranea che va dalla Liguria al Languedoc. Il tessuto de Gênes ("di Genova", da cui jeans) oppure de Nîmes (da cui denim, altro suo nome). Insomma, un Maggiolino de Gênes trovato proprio a Genova: bell'esempio di ritorno a casa!