Ogni tanto, qualcuno si ostina a chiedermi come mai, io che per un po' ho vissuto in terre straniere e che parlo talmente tante lingue da non sapere bene nemmeno l'italiano, abbia deciso non solo di ritornare indietro, ma anche di non muovermi più da Firenze e dalla Toscana. Un tempo rispondevo in vari modi, tutti alquanto complicati e talora anche discretamente polemici; ora, invece, vado diritto al nòcciolo della questione. Sí, ho avuto la possibilità (regolarmente e volutamente sprecata) di non mettere più piede in questo paese cui vengono, non senza ragione, affibbiati tutti i peggiori epiteti possibili; ma, alla fin fine, ha vinto la mia natura di abbarbicato alla propria terra, e lo sono come pochi. Mi ricordo di certi dormiveglia in posti alieni, dove mi sognavo a occhi aperti certe strade che conosco, certi riflessi dell'acqua sulla spiaggia di Galenzana, certi giri senza fine per le campagne e quel che si vede passata Volterra, giù per le Saline, dove il mondo si fa balza e gli assassini neri inseguono il viandante nella notte buia; e non c'è stato, e non ci sarà più nulla da fare. Il giorno dopo esser tornato a Firenze dopo aver passato più di tre anni in Svizzera, mi ritrovai su un autobus nel pieno d'un ingorgo inestricabile, a un'ora di punta; tutti i passeggeri ingiuriavano Iddìo, la Madonna e i santi, mentre io avevo stampato in faccia un sorriso a cinquantatré denti. E vorrà dire che sono fatto così; che sono uno che ha fatto i suoi pur modesti giri per il mondo, cercando di osservarlo e anche un po' di raccontarlo; che ho ben presenti i malanni e le schifezze che sono peraltro comuni a questo tempo che inorridirebbe Calibano; ma che non mi si deve nemmeno prospettare di andarmene di qui. Qui sono nato, qui voglio morire; e lasciamo perdere che ultimamente ho pure fatto una prova generale di quest'ultima cosina. Essendo fortunatamente rimasta una prova, occorre coglierne qualche vantaggio; per esempio, quello di essere in malattia, vale a dire di non dovere andare a lavorare per un po'. Così, oggi, subito dopo un pranzo solitario e forzatamente frugale, mi son detto che la giornata era sufficientemente autunnale, grigia e dall'odor di brace per andarmene a fare ciò che, forse, più mi definisce: lo zìngano dietro casa.
Ne conosco più d'uno di zìngani nelle più remote e lontane plaghe del Globo, e debbo dire che hanno tutto il mio più profondo rispetto. Il mondo è tuttora un gran bel posto e mi dispiace parecchio che fra un cinque miliardini d'anni debba esplodere assieme alla sua stella; ma io non sono più fatto per girarlo. Mi sono accorto che, dietro casa mia, ci sono ancora tanti posti che non conosco, o che conosco poco; e nei primi pomeriggi d'autunno, quando comincia a piovigginare e si vedono fili di fumo salire dai camini della solitudine, io parto. Vado a fare lo zìngano seguendo soltanto lo sguardo, per dei posti che mi sono familiari e ignoti al tempo stesso; quello che si vede nella foto in alto si chiama Colle Ràmole.
Senza perdermi un particolare e solo con me stesso e coi miei pensieri; è la più vasta forma di felicità che mi sia dato di provare, massime ora che, ad ogni istante, sento il sapore variegato dell'essere vivo. Mi spingo per le strade cui debbo una parte grande di quel che mi sono ritrovato a essere, e svolgo la mia grammatica della lontananza e della vicinanza canticchiando canzoni improbabili e raccontando qua e là dove sono all'unica persona cui desidero farlo. A Colle Ràmole c'ero stato una sola volta, tanti anni fa, in una villa antica; una compagna di corso, curiosamente svizzera, ci aveva invitato tutti, alla fine di un seminario che parlava di streghe e dizionari (si chiamava proprio così: Stregoneria e Lessicografia), a mangiare l'autentica fondue elvetica che aveva preparato con le sue sante mani, e con l'aggiunta generosa di doppio kümmel. Ho provato inutilmente a ricordarmi dove fosse quella villa, che sicuramente mi sarà passata davanti agli occhi perché la strada l'ho fatta tutta quanta; a un certo punto mi sono detto, come mi capita sovente, che potrei anche essermelo sognato, o che si trattava d'uno dei tanti riccardiventuri che circolavano a quell'epoca. Chissà.
Però, lo zìngano dietro casa non potrebbe essere lui, se non fosse accompagnato anche dalla sua ricerca di tregge. Questi qua sono i posti delle tregge migliori, quelle che dicono davvero qualcosa, quelle che parlano ai recessi; ed è per questo che, nei post che seguiranno, vedrete che cosa significhi davvero andare per il mondo. Esploro il mio fazzoletto, ed è un fazzoletto che è incoccato a tutto l'universo.
Ne conosco più d'uno di zìngani nelle più remote e lontane plaghe del Globo, e debbo dire che hanno tutto il mio più profondo rispetto. Il mondo è tuttora un gran bel posto e mi dispiace parecchio che fra un cinque miliardini d'anni debba esplodere assieme alla sua stella; ma io non sono più fatto per girarlo. Mi sono accorto che, dietro casa mia, ci sono ancora tanti posti che non conosco, o che conosco poco; e nei primi pomeriggi d'autunno, quando comincia a piovigginare e si vedono fili di fumo salire dai camini della solitudine, io parto. Vado a fare lo zìngano seguendo soltanto lo sguardo, per dei posti che mi sono familiari e ignoti al tempo stesso; quello che si vede nella foto in alto si chiama Colle Ràmole.
Senza perdermi un particolare e solo con me stesso e coi miei pensieri; è la più vasta forma di felicità che mi sia dato di provare, massime ora che, ad ogni istante, sento il sapore variegato dell'essere vivo. Mi spingo per le strade cui debbo una parte grande di quel che mi sono ritrovato a essere, e svolgo la mia grammatica della lontananza e della vicinanza canticchiando canzoni improbabili e raccontando qua e là dove sono all'unica persona cui desidero farlo. A Colle Ràmole c'ero stato una sola volta, tanti anni fa, in una villa antica; una compagna di corso, curiosamente svizzera, ci aveva invitato tutti, alla fine di un seminario che parlava di streghe e dizionari (si chiamava proprio così: Stregoneria e Lessicografia), a mangiare l'autentica fondue elvetica che aveva preparato con le sue sante mani, e con l'aggiunta generosa di doppio kümmel. Ho provato inutilmente a ricordarmi dove fosse quella villa, che sicuramente mi sarà passata davanti agli occhi perché la strada l'ho fatta tutta quanta; a un certo punto mi sono detto, come mi capita sovente, che potrei anche essermelo sognato, o che si trattava d'uno dei tanti riccardiventuri che circolavano a quell'epoca. Chissà.
Però, lo zìngano dietro casa non potrebbe essere lui, se non fosse accompagnato anche dalla sua ricerca di tregge. Questi qua sono i posti delle tregge migliori, quelle che dicono davvero qualcosa, quelle che parlano ai recessi; ed è per questo che, nei post che seguiranno, vedrete che cosa significhi davvero andare per il mondo. Esploro il mio fazzoletto, ed è un fazzoletto che è incoccato a tutto l'universo.