sabato 17 aprile 2010

La saga di Pontenure (3): Fischia il sasso, il nome squilla




Sì, d'accordo, qualcuno forse storcerà il naso nel vedere il titolo di questo post, che riporta a una canzonetta propagandistica in voga durante il Primo Ventennio (il secondo lo stiamo vivendo ora, invece). Balilla sarebbe stato il soprannome di un ragazzo genovese, tale Giovan Battista Perasso, che nel 1746 diede l'avvio ad una specie di intifada contro i francesi cominciando a lanciare sassate con le celebri parole: che l'inse! (vale a dire: "che incominci, che si dia la stura", in genovese; corrispondente al livornese dé ora s'incigna!). Tale gesto storico fu santificato dal regime fascista, che chiamò Balilla i ragazzini inquadrati nelle organizzazioni giovanili. Logico che, quando la Fiat decise di lanciare sul mercato non un sasso, ma la prima vetturetta "economica" (costava solo ventotto o trenta salari mensili di un operaio...), nell'anno 1932, le fosse dato il nome di Balilla. Famosissime le foto in cui la macchina veniva presentata direttamente al Dvce in persona, al quale palesemente non gliene fregava nulla. Così fu, e mi sia permesso allora il verso della canzonetta come titolo; del resto, se fior di fascisti citano Pasolini o le canzoni di Guccini...

La Balilla di queste foto è del 1936. Purtroppo reimmatricolata, con grande disappunto anche del signor Marcotti. È stata protagonista di un'iniziale scena comica: ero ancora impegnatissimo nell'ammirare e fotografare il furgone International (quello del post precedente), mentre la piasintëina mi dava pacche sulle spalle dicendomi: "guarda dietro, guarda dietro!". Non me ne ero minimamente accorto pur avendola davanti al naso. Succede anche al Treggista di avere un momentino di distrazione, eh!

Il signor Marcotti, va da sé, ci gira regolarmente e ha anche ovviato a modo suo ad un piccolissimo incoveniente della Balilla. Poiché era una vettura economica, per risparmiare non prevedeva il benché minimo impianto di riscaldamento. Durante i mesi invernali, il conducente e gli occupanti erano condannati a mettersi quattro cappotti addosso, oppure a congelare; oltretutto, era impossibile rimuovere gli strati di ghiaccio che si formavano sui vetri, e anche l'intera meccanica ne risentiva. Chi non aveva un garage o comunque un posto al chiuso dove tenere la macchina, non la poteva usare (altra caratteristica assai economica della vettura). Il signor Marcotti, dicevo, ha risolto empiricamente e efficacemente: ha preso un bel tubo flessibile, e dal vano motore lo ha fatto passare nell'abitacolo (da dove spunta bel bello). Così il motore riscalda tutto quanto. Ma non ci potevano pensare allora a una soluzione del genere? Anche se, francamente, immaginare il Dvce congelato è irresistibile, e più che altro avrebbe risparmiato all'Italia parecchie sventure.