Vetri opachi. Mi alzo un istante dalla seggiola e constato quanto è sporco quello della porta-finestra di casa mia. Lei si sta, credo, un po' annoiando; ha le sue esigenze, certo, deve far svegliare, sobbalzare e aver paura. Però, poi, si acquieta; diventa una presenza quasi familiare e l'alba si avvicina. Le sei di mattina. Mi viene a mente una poesia di Vittorio Sereni, e ve la voglio un po' raccontare.
Il poeta Vittorio Sereni, milanese, un dato giorno della sua vita dovette sicuramente essere stato visitato da Lei. E scrisse una cosa impressionante, forse unica. Vide, all'alba, se stesso morto; così compose Le sei del mattino:
Questa poesia, fin da quando la conosco (e non è ieri), ha sempre avuto due bizzarri poteri. Il primo, quello di farmi desiderare un bicchiere di qualcosa di dolce, anche del semplice succo di frutta; il secondo, quello di farmi per trenta secondi amare la città di Milano, o una città di Milano che se n'è andata, portata via dal suo vento. Una poesia straordinaria e rovesciante. Una Milano dove la nebbia non esiste. Una Milano dove un poeta può, con poche parole, giocare un tiro mancino a Lei, alla signora.
Ma Vittorio Sereni era un grande poeta, e poteva permetterselo. Riccardo Venturi, alle sei del mattino o quasi, ha a disposizione soltanto il Treggia's Blog. Piglia dunque la foto di un'Autobianchi A112 presa attraverso un opaco vetro, e si contenta. Che altro potrebbe dire? Intanto, Lei comincia a tirare qualche sbadiglio; va sempre a finire così. Me la immagino fulminata, durante la sua visitina, dalle parole di Sereni; fulminata fino a doversi inchinare. Io, invece, poveraccia, la tengo qui a vedere fotografie di macchine arrugginite.
(3. continua)
Il poeta Vittorio Sereni, milanese, un dato giorno della sua vita dovette sicuramente essere stato visitato da Lei. E scrisse una cosa impressionante, forse unica. Vide, all'alba, se stesso morto; così compose Le sei del mattino:
Tutto, si sa, la morte dissigilla.
E infatti, tornavo,
Malchiusa era la porta
Appena accostato il battente.
E spento infatti ero da poco,
Disfatto in poche ore.
Ma quello vidi che certo
Non vedono i defunti:
La casa visitata dalla mia fresca morte,
Solo un poco smarrita
Calda ancora di me che più non ero,
Spezzata la sbarra
Inane il chiavistello
E grande un'aria e popolosa attorno
A me piccino nella morte,
I corsi l'uno dopo l'altro desti
Di Milano dentro tutto quel vento.
E infatti, tornavo,
Malchiusa era la porta
Appena accostato il battente.
E spento infatti ero da poco,
Disfatto in poche ore.
Ma quello vidi che certo
Non vedono i defunti:
La casa visitata dalla mia fresca morte,
Solo un poco smarrita
Calda ancora di me che più non ero,
Spezzata la sbarra
Inane il chiavistello
E grande un'aria e popolosa attorno
A me piccino nella morte,
I corsi l'uno dopo l'altro desti
Di Milano dentro tutto quel vento.
Questa poesia, fin da quando la conosco (e non è ieri), ha sempre avuto due bizzarri poteri. Il primo, quello di farmi desiderare un bicchiere di qualcosa di dolce, anche del semplice succo di frutta; il secondo, quello di farmi per trenta secondi amare la città di Milano, o una città di Milano che se n'è andata, portata via dal suo vento. Una poesia straordinaria e rovesciante. Una Milano dove la nebbia non esiste. Una Milano dove un poeta può, con poche parole, giocare un tiro mancino a Lei, alla signora.
Ma Vittorio Sereni era un grande poeta, e poteva permetterselo. Riccardo Venturi, alle sei del mattino o quasi, ha a disposizione soltanto il Treggia's Blog. Piglia dunque la foto di un'Autobianchi A112 presa attraverso un opaco vetro, e si contenta. Che altro potrebbe dire? Intanto, Lei comincia a tirare qualche sbadiglio; va sempre a finire così. Me la immagino fulminata, durante la sua visitina, dalle parole di Sereni; fulminata fino a doversi inchinare. Io, invece, poveraccia, la tengo qui a vedere fotografie di macchine arrugginite.
(3. continua)